Operette morali
Le Operette morali sono una raccolta di ventiquattro componimenti in prosa, divise tra dialoghi e novelle, dallo stile medio e ironico, scritte tra il 1824 ed il 1832 dal poeta e letterato Giacomo Leopardi. Furono pubblicate in edizione definitiva a Napoli nel 1835,[1] dopo due edizioni intermedie nel 1827 e nel 1834. A differenza dei Canti, sono state concepite nel corso di un singolo anno, nel 1824, anche se le differenti edizioni testimoniano integrazioni di dialoghi successivi e aggiustamenti circa il messaggio finale. Le Operette costituiscono l'approdo letterario di quasi tutto lo Zibaldone.[2] I temi sono quelli cari al poeta: il rapporto dell'uomo con la storia, con i suoi simili ed in particolare con la Natura, di cui Leopardi matura una personale visione filosofica; il confronto tra i valori del passato e la situazione statica e degenerata del presente; la potenza delle illusioni, la gloria e la noia. Sono tematiche riproposte alla luce del cambiamento radicale avvenuto nel cuore dello scrittore:[3] la ragione non è più un ostacolo alla felicità, ma l'unico strumento umano per sfuggire alla disperazione. Le Operette furono spesso confuse con un progetto parallelo del padre Monaldo, che ebbe molto successo[4] e di cui spesso Giacomo era citato come l'autore, procurando al poeta frustrazione e imbarazzo. Genesi dell'operaLe prosette satiricheLeopardi accarezzava già dal 1820 l'idea di scrivere delle Prosette satiriche,[5] ma solo nel 1824 il progetto matura e coinvolge più argomenti ed esperienze. Sono gli anni del trasferimento a Roma, nel tentativo di lasciare Recanati, la tomba de' vivi, per trovare la felicità (illusione presto svanita); della crisi poetica (l'inaridimento della vena lirica della prima gioventù) e filosofica (il passaggio dal materialismo storico-progressivo a quello cosmico). In un passo dei Disegni letterari ricostruito sulle carte autografe recanatesi, Leopardi rivela di voler scrivere dei: «Dialoghi satirici alla maniera di Luciano, ma tolti i personaggi e il ridicolo dai costumi presenti e moderni, e non tanto tra i morti [...], quanto tra personaggi che si fingano vivi, ed anche volendo, fra animali [...]; insomma piccole commedie, o Scene di Commedie [...]: le quali potrebbero servirmi per provar di dare all'Italia un saggio del suo vero linguaggio comico che tuttavia bisogna assolutamente creare [...]. E questi dialoghi supplirebbero in certo modo a tutto quello che manca nella Comica Italiana, giacché ella non è povera d'intreccio d'invenzione di condotta ec., e in tutte quelle parti ella sta bene; ma le manca affatto il particolare cioè lo stile e le bellezze parziali della satira fina e del sale e del ridicolo attico e veramente e plautino e lucianesco [...].[6]» A Besomi spetta il merito di aver ricostruito, il più fedelmente possibile, la data di composizione di questi primi abbozzi. Non estranea l'influenza della delusione dei moti del 1820-1821 a Napoli che, successivamente, farà sparire la coloritura politica di queste prime prove. Blasucci e Secchieri considerano i tempi delle prosette satiriche momenti distinti dalle Operette vere e proprie. Il primo nucleoSebbene di data incertissima, si possono datare al 1820-'21[7] i seguenti esperimenti di prosette. Dallo sporadico accenno del 1820, l'opera cresce fino alle dichiarazioni esplicite del 1821 al Giordani:[8]
In questi primi dialoghi sono presenti alcune caratteristiche tipiche dello stile lucianeo (conversazione agli inferi, forme di comicità bassa, ecc.) che diventeranno proprie delle Operette vere e proprie. Il tema principale di questo nucleo è la penitenza della virtù,[9] ovvero la scelta di una scrittura morale che non può più insegnare quegli errori magnanimi che abbelliscono la nostra vita [...]. Questi errori sono la virtù e la gloria. La nuova scrittura rinuncia alla poesia (lirica) e alla persuasione dell'entusiasmo; e consiste, molto praticamente, nell'astensione dall'impegno politico e filantropico. Resta solo l'ironia e il gioco fine a sé stesso: a confronto sono presi Senofonte e Machiavelli, la Ciropedia e il Principe. I dialoghi e le novelle sono costantemente intrecciati e variati, tanto che è difficile se non impossibile tracciare un quadro d'insieme. Mutano continuamente situazioni, personaggi, luoghi e tempi; «emerge un mondo bizzarro di gusto popolare e fanciullesco, pieno di grazia e di geniale vanità».[10] Ben rappresentato appare il piacere della variazione, della discontinuità: il lettore è provocato e stimolato; la conclusione del libro viene lasciata alla sua responsabilità. Questo aspetto troverà la sua più compiuta attuazione nel Dialogo di Plotino e di Porfirio. Gli abbozzi del '20-'21 riportano temi critici verso l'assolutismo e l'antropocentrismo. La forte coloritura politica, che sparirà successivamente per essere ripresa solo nelle ultime operette, costituirà uno spunto di riflessione talmente profondo da far mutare l'atteggiamento psicologico, filosofico-morale e letterario dell'autore, tanto da riconsiderare la forma stessa dell'espressione: è questo il passaggio dalla poesia alla verità, alla prosa: «[...] Non solo alla lingua francese (come osserva la Staël), ma anche a tutte le altre moderne, pare che la prosa sarebbe più confacente del verso alla poesia moderna» Tra il '22 e il '23 il poeta trascrive in una pagina dello Zibaldone, indicata come progetti letterari, un indice approssimativo di 17 operette. Sono già presenti molti dialoghi e novelle, anche se con un titolo provvisorio:
L'edizione definitivaLa versione definitiva delle Operette morali che oggi conosciamo segue questo ordine:
Storia editorialeIndice autografo del '24
Indice del '24Nel 1888, al passaggio delle carte da Antonio Ranieri alla Biblioteca Nazionale di Napoli, emerse un autografo con un indice per le venti operette fino ad allora composte, diverso dalla prima e da ogni edizione a stampa nota.[15] L'autografo è una bella copia abilmente predisposta con ampi margini per contenere note e appunti, soprattutto di carattere grammaticale e stilistico. In base ai diversi colori degli inchiostri usati è stato possibile distinguere tre fasi correttorie anteriori al maggio del 1826.[16] A differenza dei Canti, le Operette morali non hanno subito grandi cambiamenti.[17] Nella prima prova mai data alle stampe, è interessante la chiusura affidata al Cantico del Gallo Silvestre, che richiama la novella iniziale, Storia del genere umano: Leopardi affida a un essere soprannaturale un messaggio escatologico che integra il tema della morte, facendo prevalere nel libro l'aspetto più filosofico del suo pensiero. Questa immagine svanirà nelle successive edizioni, per poi essere recuperata nel dittico che il Cantico formerà con il Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco, introdotto da una piccola nota in calce nell'edizione del 1835. Edizione del '27Conosciuta come la prima edizione ufficiale delle Operette morali, è stata pubblicata a Milano da Antonio Fortunato Stella, intelligente editore che seppe mediare con i rigidi censori dell'epoca.[18] Stella è da annoverare, insieme a Giordani e Montani, tra quei personaggi che seppero comprendere lo spirito dell'opera, anche se l'Italia non era abituata a quel genere di letture. Tra il 1825 e il 1827[19] Leopardi scrive tre nuove prose[20] che però non figurano in questa edizione.[21] Dalla fitta corrispondenza del periodo, testimone delle correzioni, revisioni e commenti dell'autore, emerge l'unitarietà del registro retorico delle Operette[10] che giustifica l'assenza di un'introduzione che spieghi il disegno programmatico. Nello spostamento del Timandro a chiusura del libro la critica ha letto una sorta di apologia dell'opera contro i filosofi moderni:[22] evidentemente la composizione del Frammento apocrifo, che con il Cantico andrà a formare il pilastro del concetto leopardiano del tutto è male, ha condizionato il cambiamento del finale. Lo spostamento del Dialogo della Natura e di un Islandese, inserito tra il Tasso e il Parini, è dettato da variatio letteraria: l'autore evita la successione di due operette che hanno per protagonisti due storici poeti e letterati. Edizione del '34La seconda edizione delle Operette fu pubblicata sei anni dopo, nel 1834 (inviata tra giugno e luglio 1833) perché la prima era letteralmente introvabile. In quel periodo Leopardi soffriva di un fastidioso male agli occhi; a causa del problema alla vista, fu Antonio Ranieri ad occuparsi materialmente della stampa, presso l'editore Guielmo Piatti di Firenze, che nel 1831 aveva già pubblicato i Canti. Sono pubblicate per la prima volta due nuove operette: nel 1832, il poeta aveva composto il Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere e il Dialogo di Tristano e di un amico. Quest'ultimo, posto a conclusione della raccolta, è un testo polemico legato alla rottura col gruppo fiorentino dell'Antologia.[23] La nuova edizione è una risposta alle opinioni ostili mosse nei suoi confronti e un'occasione per riprendere in modo più radicale le riflessioni in essa contenute. Delle operette del '25-'27 ancora nessun segno, anche se il contenuto del Frammento si fa sentire in una nota posta al Cantico in cui l'autore dichiara: Questa è conclusione poetica non filosofica. Il passo successivo sarà quello di approfondire questa conclusione in un testo più ampio e articolato. Da segnalare ancora una volta problemi legati alla censura. Nella Storia del genere umano compare una nota posta dal censore fiorentino Mauro Bernardini: «L'autore protesta [...] che non ha fatta alcuna allusione [...] a veruna delle tradizioni e dottrine del Cristianesimo.» Cassati per il momento anche il Porfirio e il Copernico, probabilmente più per indecisione dell'autore che per paura della censura.[24] Edizione del '35La terza edizione delle Operette presso l'editore Saverio Starita di Napoli, corretta e accresciuta,[25] fa parte di un progetto per la stampa completa delle opere poetiche e in prosa di Giacomo Leopardi in tre volumi: il primo per i Canti e il secondo, diviso in due tomi, per le Operette. Sfortunatamente la pubblicazione fu interrotta dalla censura e solo le prime tredici videro la luce. Leopardi aveva finalmente risolto di pubblicare Il Copernico ovvero della gloria e il Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco.[26] «L'edizione delle mie opere è sospesa, e più probabilmente abolita, dal secondo volume in qua, il quale ancora non si è potuto vedere a Napoli pubblicamente, non avendo ottenuto il publicetur. La mia filosofia è dispiaciuta ai preti, i quali e qui e in tutto il mondo, sotto un nome e sotto un altro, possono ancora e potranno eternamente tutto.» Nonostante la soppressione, molte copie del primo volume furono vendute con uno stratagemma: il frontespizio originale fu sostituito con il seguente: Prose di Giacomo Leopardi, Edizione corretta, accresciuta e sola approvata dall'autore, Napoli, Italia 1835. Edizione del '45Nel 1845 uscì la prima edizione postuma presso l'editore di Firenze, Le Monnier curata gelosamente da Antonio Ranieri che, sebbene piena di errori, fu costruita sull'autografo dell'autore e sui suoi appunti preparatori per l'edizione Starita e per quella parigina.[26] Ranieri aggiunse alcune note al testo, ma non sempre in modo puntuale.[27] Il Frammento trova posto dopo il Cantico.[28] Il Copernico e il Porfirio sono interposti a Timandro e alle operette composte per ultime. La palinodia del Tristano si conferma a conclusione dell'opera. Restò escluso il Dialogo di un lettore di umanità e di Sallustio, «per volontà dell'autore», anche se nessun documento ne spiega i motivi. Ad avvalorare il lavoro, che testimonia sia stata attuata la volontà di Leopardi e non quella di Ranieri, un esemplare del primo volume della Starita e un'edizione della Piatti corretta dall'autore, più alcuni autografi e bozze.[29] Nella stampa era presente un'avvertenza, imposta a varie operette dal censore fiorentino, padre Amerigo Barsi, per proteggere il lettore, in nome del sistema cattolico, dagli errori del poeta. Edizioni critiche moderneLe basi per la prima edizione critica furono gettate da Giovanni Mestica, che concentrò la maggior parte del suo lavoro sulla carte napoletane. Nonostante la morte prematura del curatore, avvenuta prima del compimento dell'opera, la casa editrice Le Monnier approntò una nuova edizione che si basava sui suoi studi nel 1906. Ad essa seguì l'edizione di Giovanni Gentile, per la Zanichelli, a Bologna nel 1918[30] che si rifaceva all'ultima edizione curata da Leopardi, più l'autografo napoletano. A questo punto l'edizione critica ufficiale fu portata a termine da Francesco Moroncini e pubblicata nel 1929 a Bologna; ad essa si rifanno tutte le successive edizioni. Il Moroncini, come Ranieri, si basò su una copia del primo volume della Starita corretta da Leopardi stesso e sulla Piatti con correzioni a mano di Ranieri dettate dal poeta. Per il Copernico utilizzò una bozza corretta per il terzo volume delle Opere edizione Starita che non uscì mai, mentre per il Porfirio l'edizione del '45 più riscontri con autografi. Anteprima in riviste e giornaliLe predilette Operette sono state pubblicate da Leopardi anche su riviste e giornali e hanno preceduto l'edizione in volume. Tuttavia queste anticipazioni autorizzate più di una volta furono per lui motivo di grande frustrazione, dati i molti errori e le sviste. Nella prima edizione dell'Antologia, contenente solo tre dialoghi[31] apparsi sul numero LXI del gennaio 1826, l'ultima operetta è stata inserita come prima, stravolgendo il significato del libro. «I miei Dialoghi stampati nell'Antologia, non avevano ad essere altro che un Saggio,[32] e però furono così pochi e brevi. La scelta fu fatta dal Giordani, che senza mia saputa mise l'ultimo per primo.» «[...] Vi ringrazio dell'onore che avete fatto ai miei dialoghi di pubblicarli nel vostro Giornale, benché io m'avvegga di non aver saputo spiegare a Giordani il mio desiderio in questo proposito, e benché mi abbiano un poco umiliato i molti e tremendi errori che sono corsi nella stampa (tali che spesso nel leggerla non m'intendeva io stesso), e l'ortografia barbare che vi regna.» La seconda edizione, emendata di molti errori, comparve sul Nuovo Ricoglitore:[33] la prima operetta sul numero del 15 marzo 1826, le altre due sul numero del 16 aprile 1826. Un'altra preoccupazione per Leopardi era la pubblicazione spezzata: l'esordio con La storia del genere umano e la chiusura sempre diversa da un'edizione all'altra testimoniano un disegno ben preciso e articolato. «L'uscir fuori a pezzi [...] nuocerà sommamente ad un'opera che vorrebb'esser giudicata nell'insieme, e dal complesso sistematico, come accade a ogni cosa filosofica, benché scritta con leggerezza apparente» «È vero che darà poi tutto il libro in una copia, ma il primo giudizio del pubblico sarà già stato formato sopra quei pezzi usciti a poco a poco, e molto lentamente: e il primo giudizio, è quello che sempre resta» Il fianco a malintesi, anche da parte degli editori, si presta principalmente per l'assenza nella struttura di qualsiasi elemento di sistematicità.[10] Le Operette in breve secondo l'edizione del '35
Modelli e fontiGenere di satira risalente all'opera del polemista greco Menippo di Gadara (II secolo a.C.), praticato poi da Varrone; ebbe profondi influssi su Petronio e soprattutto su Seneca (Apokolokyntosis) e Luciano di Samosata. La menippea è caratterizzata da mescolanze volutamente disarmoniche tra prosa e versi: la forma letteraria da cui deriva è il prosimetro. Lo scrittore produce un'alternanza frequente, non episodica, di prosa e versi, (esempi, oltre i classici, sono la Vita Nuova di Dante, l'Ameto di Boccaccio, l'Arcadia di Sannazaro); di serietà e comicità (il cosiddetto spoudogeloion, lo stile serio-comico usato dal filosofo greco Menippeo e dalla menippea in generale, in cui è data formulazione scherzosa e trattamento comico ad argomenti filosofici); di realismo popolare e di raffinate citazioni o parodie letterarie. Luciano di Samosata è stato un retore-narratore dalla ricca vena umoristica vissuto nel II secolo d.C. Nella sua opera imprime nuove tendenze al dialogo, alla parodia e alla satira menippea. Nel corpus di Luciano figura (non è suo, ma forse deriva da una sua opera narrativa andata perduta) quel Lucio o l'Asino che documenta un perduto modello del romanzo di Apuleio.[34] Il modello principale è l'antica satira menippea. Nelle Operette domina l'imitazione dei Dialoghi dei morti di Luciano, che per Leopardi è un modello di stile.[35] In Italia non è mai esistito niente di simile. Ne imita la comicità e le mosse umoristiche e argute, muovendosi dal sostenuto al dialogo basso e all'imitazione gratuita.[36] La variazione di numerosi inserti all'interno delle stesse Operette, enfatizzano il paratesto per svuotarlo di significato:[10] su tutte Federico Ruysch, in cui troviamo contemporaneamente, novella fantastica, teatro comico, dialogo dei morti e coro finale che ripropone un genere molto antico-, Il cantico, canto ridotto in prosa, temi comici accanto a temi biblici, contrasti che nella scrittura ricordano lo stile ebraico o il moderno francese ecc. «Lo scriver francese tutto staccato, dove il periodare non è mai legato col precedente[...], il cui stile non si dispiega mai, [...] è una specie di Gnomologia. In questa qualità, lo scriver francese rassomiglia allo stile orientale il quale anch'esso [...] è tutto spezzato come si vede ne' libri poetici e sapienzali della scrittura.» La finzione del manoscritto ha come prototipo il Pulci,[37] mentre il Prometeo e l'Islandese sono il miglior esempio di fusione tra narrazione e dialogo. Nel Parini è sperimentato anche il trattato alla maniera di Cicerone. La scrittura alla maniera di Luciano è una scelta che mira ad innalzare la commedia e il miglior procedimento per assecondare la sua immaginazione, sicuramente non un semplice esercizio retorico, o bazzecole grammaticali. Non si trova nella letteratura italiana un modello per le Operette ovvero un altro libro di argomento profondo e tutto filosofico e metafisico.[38] Per la contaminazione di generi e la varietà di registri stilistici interni Leopardi è stato preceduto dall'Alberti delle Intercenales.[39] L'erudizione, quindi le sterminate fonti e riferimenti culturali, dotti, sono un travestimento letterario responsabile del tono ludico e parodico del testo.[10] Leopardi si rifà al genere espresso da Luciano e gli autori che ad esso si sono ispirati, come il Machiavelli de La vita di Castruccio Castracani da Lucca o la Vita di Leon Battista Alberti, in chiave moderna Life and Opinions of Tristram Shandy, Gentleman (vedi l'Ottonieri[40]) di Laurence Sterne.[41] Per la battuta di Malambruno (Fammi felice per un momento di tempo) e il gioco a palla di Ercole e Atlante è stato tirato fuori il Faust di Goethe.[42] Sono presenti influssi della saggistica argomentativa e della narrativa filosofica settecentesca (Voltaire, Diderot), dell'elogio commemorativo, del frammento apocrifo, della raccolta di detti memorabili di uomini celebri. Tra i personaggi troviamo scienziati (Copernico), personaggi storici (Cristoforo Colombo), filosofi (Plotino, Porfirio). Socrate rappresenta un modello di filosofia, fondatore della morale della cultura occidentale: Leopardi riteneva proprio l'etica la parte più importante della filosofia in generale. Tuttavia in alcuni momenti dell'Ottonieri, finisce per costruire un testo di maniera, molto libresco e poco vero. Buona parte dei dialoghi leopardiani possiede una natura filosofica di matrice scettica, caratteristica della letteratura moralistica, sia antica (Luciano) che moderna (Illuminismo). Per difendere le sue convinzioni dall'attacco del Tommaseo, il poeta si rifà, per esempio, al pirronismo di Bayle: «Che i miei principi sieno tutti negativi, io non me ne avveggo; ma ciò non mi farebbe gran meraviglia, perché mi ricordo di quel detto di Bayle; che in metafisica e in morale, la ragione non può edificar, ma solo distruggere» Tolto Luciano, i modelli più significativi da un punto di vista di gusto meramente letterario sono principalmente illuministi. Di Fontenelle apprezza la superficialità e la leggerezza; il cinismo di Voltaire nel suo Candido si affaccia sullo stato d'animo dell'Islandese. La battuta di un personaggio di Christoph Martin Wieland sono all'origine della misantropia di Eleandro. Sul fronte italiano Ariosto è un autore particolarmente caro al nostro che nel Dialogo terra Luna esprime al meglio il suo stile comico. Vastissima invece la mole di fonti letterarie citate più o meno direttamente dall'autore e che appartengono al suo bagaglio culturale,[43] sono informazioni importanti funzionali alla creazione di un'atmosfera di divertita erudizione all'interno del testo, uno sfoggio di cultura ironica perché volutamente frivola.[44] Non semplice è il lavoro stesso di ricerca data l'alta frequenza di informazioni puntuali e dottrine in cui s'inseriscono, secondo il gusto tipico dell'autore, notizie curiose e bizzarre. Difficile quindi, distinguere, all'interno del testo, «l'ironia allusiva da ciò che è riuso poetico, memoria (volontaria o involontaria). Resta che la scrittura di Leopardi comporta sempre un fitto dialogo intertestuale».[10] Quest'opera assume dunque un'importanza come momento necessario nell'evoluzione della spiritualità leopardiana ed i dialoghi hanno un intrinseco valore lirico e poetico.[45] Bazzecole grammaticaliLe Operette morali si presentano come una raccolta di testi apparentemente slegati, senza una cornice o espliciti collegamenti tematici. Formalmente mostrano l'impiego di un elevato registro espressivo; le tecniche paratestuali coinvolgono testi fittizi, manoscritti ritrovati o volgarizzati, apocrifi. Il lettore è spinto a seguire il ragionamento da angolazioni sempre diverse. Questa sistematica variazione fornisce ai testi un'inconfondibile originalità filosofica, morale e poetica. Il pensiero dell'autore non appare circoscritto ad un determinato testo, ma sconfina volutamente in altre parti del libro senza soluzione di continuità. La curiosità del lettore su tematiche sensibili troverà soddisfazione proprio procedendo con la lettura. Si può considerare un'opera aperta proprio per quel trionfo dell'immaginazione e dell'estro che governa l'invenzione in conflitto con l'attesa di una sistematicità che il titolo promette.[10] L'unico esempio disponibile al tempo erano delle prosette alla maniera di Luciano di Vincenzo Monti.[46] Il poeta romagnolo aveva rispolverato il genere, evitando l'abusato dialogo dei morti, e aveva inserito alcuni componimenti nei quattro volumi della Proposta di alcune correzioni e aggiunte al vocabolario della Crusca, editi tra il 1817 e il 1824. Leopardi analizzò con cura nel marzo del 1821 gli esemplari montiani prima di cominciare a lavorare al suo progetto già concepito da tempo. Nonostante l'illustre precedente, le operette resteranno un'opera originale e senza seguito nella storia della letteratura italiana.[47] Tematiche e contenutiIl titoloIl titolo lega insieme i due aspetti principali dell'opera leopardiana: il carattere satirico e il fine morale.[48] Operette è un diminutivo di umiltà: si tratta di componimenti brevi, considerati piccoli in mole e in valore dall'autore. La loro minuzia contribuisce a renderli, però, di un'efficacia filosofica e poetica lucida, programmatica e chiara. Il termine morali segna il contenuto filosofico: i mores, i costumi, indicano la volontà di individuare nuovi modelli di comportamento, mettendo a confronto l'antichità e la modernità: implicito il richiamo agli Opuscula Moralia di Plutarco. L'attenuazione canonica del genere morale antico e umanistico, riporta a Isocrate, di cui Leopardi volgarizza alcune Operette morali[49] e Plutarco, fino a Machiavelli e al moralismo illuministico. Le Operette prendono il titolo anche dal messaggio pratico, non solo teoretico che danno: proponendo un umile rimedio agli effetti funesti della filosofia moderna o della verità, recuperano l'inesperienza, le passioni e l'immaginazione dell'antichità (fondate sul falso), unico rimedio per migliorare la qualità della vita umana, e, in alternativa, suggeriscono delle tattiche di narcotizzazione per alleviare il dolore. Un impegno simile sarà profuso in un altro scritto del 1826, il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani, in cui sono evidenti le finalità politiche, morali e storiche. Fase materialistaAlla fine del '24 il pensiero di Leopardi è orientato verso il materialismo, come attestano le letture del barone d'Holbach annotate nello Zibaldone. L'aspetto pessimistico, usato da una parte della critica per riferirsi alla sua filosofia è da riconsiderare perché non accettata dall'autore: «Tutto è male. [...] ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; il fine dell'universo è il male; [...] Non v'è altro bene che il non essere: non v'ha altro di buono che quel che non è; [...] tutte le cose sono cattive. [...] L'esistenza per sua natura ed essenza propria e generale, è un'imperfezione, un'irregolarità, una mostruosità. Ma questa imperfezione è una piccolissima cosa, [...] perché tutti i mondi che esistono, [...] non essendo però certamente infiniti, né di numero né di grandezza, sono per conseguenza infinitamente piccoli a paragone di ciò che l'universo potrebbe essere se fosse infinito; e il tutto esistente è infinitamente piccolo a paragone della infinità vera, [...] del non esistente, del nulla. Questo sistema, benché urti le nostre idee, [...] sarebbe forse più sostenibile di quello del Leibnitz, del Pope ecc. che tutto è bene. Non ardirei però estenderlo a dire che l'universo esistente è il peggiore degli universi possibili, sostituendo così all'ottimismo il pessimismo. Chi può conoscere i limiti della possibilità?» Il Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco è il culmine filosofico del libro. Insieme con l'Islandese e il Metafisico formano il gruppo di operette che definisce più compiutamente il materialismo leopardiano. Il fine della natura non è il bene ma la conservazione in vita degli esseri (Natura e Islandese). La vita è infelice: meglio un'esistenza breve ma intensa e ricca di forti illusioni, che una lunga, piena di emozioni dilatate e narcotizzanti. A chi piace e a chi giova questa infelicissima vita dell'universo? Nessun filosofo sa rispondere alla domanda. È una sconfitta del pensiero filosofico e in generale la rappresentazione dell'inadeguatezza della filosofia a spiegare la condizione del genere umano nell'universo. Il Cantico del gallo silvestre, con il suo andamento lirico, snocciola monolitiche sentenze mettendo il lettore nell'attesa di una soluzione filosofica, Così questo arcano mirabile e spaventoso dell'esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi, fornita nel Frammento: «I diversi modi di essere della materia [...] sono caduchi e passeggeri; ma nessun segno di caducità né di mortalità si scuopre nella materia universalmente, e però niun segno che ella sia cominciata, né che ad essere le bisognasse o pur le bisogni alcuna causa o forza fuori di sé.» Malgrado le apparenze, resta un non finale e sarà il punto modificato più spesso dall'autore. Leggerezza apparenteAll'interno delle operette si rincorrono e si sovrastano diversi temi, particolarmente cari al poeta. Un argomento spesso presente è la perfezione naturale. Tale condizione implica uno stato di felicità che per natura agli uomini è impossibile conseguire (Scommessa di Prometeo, Dialogo di un Fisico e un Metafisico), mentre è concessa ad altre specie, come gli uccelli (Elogio degli uccelli), simbolo del movimento continuo e armonico, rapido ed elegante. L'assenza della felicità nel mondo è la prova della sua imperfezione e la miserabile condizione umana verificata da Prometeo una verità inoppugnabile, simbolicamente costata una scommessa. Impossibilitato a raggiungere una perfezione naturale, l'uomo può conseguire uno stato di eccellenza attraverso l'intelletto e la ragione: il genio. È la tematica del Parini chiamato a rinnegare la gloria a causa della sproporzione esistente tra il progresso del sapere e la condizione infelice del genio. Situazione toccata anche nel Dialogo della Natura e di un'Anima dove la gloria è associata ad una condizione umana miserevole in cui grandezza e infelicità sono due aspetti inseparabili e i grandi ingegni mal si relazionano col resto del mondo (vedi anche l'Ottonieri). L'Anima pertanto chiederà d'essere alluogata nell'essere umano più imperfetto e stupido. Altro tema che ricorre attraverso più operette è il suicidio indicata nella Storia del genere umano come morte preposta o preponibile alla vita. È un desiderio proprio dell'essere umano, estraneo a tutti gli altri esseri viventi. Nel Fisico e Metafisico, Leopardi spiega come non la vita ma la felicità è amata dall'uomo. L'analisi tra antichi e moderni è esplorata nel Timandro, nel Tristano, nel Dialogo d'Ercole e Atlante, e Moda e Morte. La vitalità antica si oppone all'inerzia moderna: Ercole e Atlante giocano a palla con la terra, leggera e senza vita; la Moda ha fatto sparire gli esercizi e le fatiche che fanno bene al corpo e spento nell'uomo il desiderio di gloria e d'immortalità, proprio degli antichi; nel Parini si svolge l'argomentazione della superiorità dell'azione sul pensare e lo scrivere.[50] La teoria del piacere derivante dall'idea di vastità e indefinito è l'argomento più famoso e conosciuto dell'autore, ampiamente esplorato nelle altre opere maggiori, Zibaldone[51] e Canti. Ad essa si ricollegano diversi temi minori: la noia, che deriva dall'assuefazione e da una vita priva di grandi azioni (Tasso, Porfirio); il rischio e la distrazione, che allontanano l'uomo dal tedio e per pochi attimi catturano l'essenza della vita, tanto più la si mette in gioco (Colombo, Elogio degli uccelli, Storia del genere umano); i grandi sentimenti, gli unici in grado di mover il core a grandi azioni; e infine lo stupore, vissuto nel sogno, attraverso la meraviglia degli antichi, nei fanciulli, nei non civilizzati e nei solitari. Per Leopardi la vita è dolore, mentre la morte è cessazione del dolore. È un tema molto ricorrente, quasi il pilastro del suo pensiero. Il poeta propone vari modi per combattere il dolore. Lo stesso sonno (Dialogo Malambruno e Farfarello) aiuta quando rende la realtà vaga e incerta, mai ben definita (secondo la teoria del piacere), oppure attraverso l'assunzione di sostanze narcotiche come gli alcolici (Tasso). La morte non è molto dissimile dal diletto che è cagionato agli uomini dal languore del sonno, nel tempo che si vengono addormentando (Ruysch). «Pare che l'essere delle cose abbia per suo proprio e unico obbietto il morire [...] le creature animate [...] in tutta la loro vita, ingegnandosi adoperandosi e penando sempre, non patiscono veramente per altro, e non si affaticano, se non per giungere a questo solo intento della natura, che è la morte» La noia può essere combattuta con il sonno (effetto narcotizzante: l'oppio) ma è il dolore, il rimedio (Tasso). È il sentimento più potente di tutti, perché l'uomo mentre patisce, non si annoia per niuna maniera. Per Leopardi è impossibile la felicità, mentre il patimento è necessario alla vita. Lingua e stileLa scelta della lingua va inquadrata all'interno di un ambizioso progetto letterario: «Chiunque vorrà far bene all'Italia, prima di tutto dovrà mostrarle una lingua filosofica, senza la quale io credo ch'ella non avrà mai letteratura moderna sua propria, e non avendo letteratura moderna propria, non sarà mai più nazione.» Lo stile delle Operette è incisivo, ironico e serrato, caratterizzato da un linguaggio chiaro e puntuale, con l'effetto di trattare con estrema lucidità le tematiche fondamentali. Leopardi rifiuta le due soluzioni moderne: puristica da un lato, francesizzante dall'altro. Scartato anche il modello ipotattico, latineggiante, caro all'amico Giordani. La scelta è per il recupero nell'italiano, a tutti i suoi livelli (popolare incluso), di tutto quello che c'era di analogo al greco attico[52]. La ricchissima varietà della lingua italiana,[53] avrebbe permesso di recuperare un linguaggio antico ma funzionale, col quale l'autore avrebbe ottenuto principalmente una semplificazione sintattica: meno ricorso all'ipotassi, alle figure retoriche e all'inversione dell'ordine delle parole. Importanti sono i procedimenti che individuano l'intensificazione emozionale: moltiplicazione verbale e accumulo di proposizioni; uso di elativi e di voci perplesse e indefinite. Molte Operette hanno la struttura del dialogo, sulla base dello stile della trattazione filosofica dell'antica Grecia o del settecento illuminista; le narrative mostrano l'impronta di Cicerone, Machiavelli, Cervantes, Foscolo, Goethe, Sterne e l'Alfieri. Il paradossoLa tecnica usata dall'autore viaggia come anche altre soluzioni su due piani: uno strutturale: lo scrivere un libro di filosofia morale per vivere meglio, consapevole dell'impossibilità di arrecare qualche bene; l'altro microstrutturale: mettere insieme all'interno dei dialoghi sentenze antiche e motti moderni.[54] Lo strumento del paradosso è parte necessaria del pensiero filosofico e insieme con l'ironia non può essere scisso dal discorso leopardiano. Nelle Operette predomina un intento ludico studiato per far sorridere il lettore. La presenza di una volontà di distruggere i costumi del tempo, implica un continuo ricorso all'azione ironica, strumento necessario per costruire una fitta trama di relazioni che hanno come scopo ultimo il rifiuto dell'oggetto deriso e, allo stesso tempo, la proposta di un differente modello di vita:[48] ciò permette all'autore di giocare e scherzare con i comportamenti umani contemporanei e allo stesso tempo mantenere la finalità morale dell'opera. Il riso ha poi una funzione medicamentosa, che allevia i dolori dell'essere umano causati dalla nuda verità. Secondo Leopardi è uno dei pochi mezzi con cui l'uomo può accrescere la propria vitalità (Elogio degli uccelli). ProsopopeaIl continuo ricorso di Leopardi ad esseri immaginari, (gnomi, folletti, mummie), storici (Torquato Tasso, Cristoforo Colombo, Giuseppe Parini), mitologici (Ercole, Atlante, Giove), filosofici (Plotino, Porfirio, Amelio), letterari (Malambruno, Farfarello), comuni (passeggeri, islandesi, venditori ambulanti), inanimati (la Terra, la Luna), simbolici (la Natura, l'Anima, la Morte, la Moda) sono una satira dell'antropocentrismo, la derisione del progresso moderno e di una società in cui prevale un odio distruttore. Tutti i protagonisti possiedono una forte rappresentatività simbolica, ottenuta attraverso la tecnica dello straniamento e della prosopopea che rende animati elementi che non lo sono. Leopardi non ha mai voluto comparire nel testo. Nega la sua realtà di personaggio ideologico. «Avrei voluto fare una prefazione alle Operette morali, ma mi è paruto che quel tuono ironico che regna in esse, e tutto lo spirito delle medesime escluda assolutamente un preambolo; e forse Ella, pensandovi, converrà con me che se mai opere dovette essere senza prefazione, questa lo debba in particolar modo.» Nessun protagonista è Giacomo, tutti sono complici, portavoce del suo pensiero e degli affetti più riposti: il ricorso alla citazione continua, all'argomentazione discorsiva da un lato, le preoccupazioni didascaliche, il paradosso e l'ironia dall'altro, provocano nel lettore un senso di straniamento e sorpresa; una condizione, fortemente cercata dall'autore, che la personificazione, a qualsiasi livello, finirebbe per annullare. Appendice delle Operette moraliL'Appendice delle Operette morali è stata messa insieme per la prima volta in un'edizione critica da Francesco Moroncini, raccogliendo testi di provenienza diversa, ma riconducibili al disegno programmatico dell'autore, in particolar modo il nucleo primordiale dell'opera, costituito da quei testi che Leopardi aveva definito, in una lettera al Giordani, Prosette satiriche.[5] Le Note delle OperetteLe Note delle Operette morali, in totale sessantadue,[55] sono state scritte da Leopardi tra l'ottobre e il dicembre del 1824. Nelle varie edizioni hanno subito poche modifiche: si ricordano alcune integrazioni di mano del Ranieri, espunte nell'edizione critica dal Moroncini. Nel complesso si tratta di informazioni puntuali circa alcuni argomenti trattati o curiosità di ordine storico, filosofico, filologico, ma anche cronaca dell'epoca. Sarà lo stesso poeta a spiegarne il senso e la collocazione: «Avverto che le note, non dovranno esser collocate a piè di pagina, ma appiè del volume, o di ciascun volume per la sua parte. È vero che io altre volte ho insistito che le note si ponessero appiè di pagina; ma qui il caso è diverso: esse non servono né all'intelligenza né ad illustrazione del testo; sono un lusso di erudizioncella, che imbarazzerebbe il lettore se si trovasse nel corso dell'opera appiè di pagina.» Note
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