Eneide
(LA)
«Cedite Romani scriptores, cedite Grai: (IT)
«Fatevi da parte, scrittori romani, e anche voi, greci: L'Eneide (in latino Aeneis) è un poema epico della cultura latina scritto dal poeta Publio Virgilio Marone tra il 29 a.C. e il 19 a.C. Narra la leggendaria storia dell'eroe troiano Enea (figlio di Anchise e della dea Venere) che riuscì a fuggire dopo la caduta della città di Troia, e che viaggiò per il Mediterraneo fino ad approdare dapprima nella grande città di Arpi e successivamente nel Lazio, diventando il progenitore del popolo romano. Alla morte di Virgilio il poema, scritto in esametri dattilici e composto da dodici libri per un totale di 9896 versi, rimase privo degli ultimi ritocchi e revisioni dell'autore, testimoniate da 58 esametri incompleti (chiamati tibicines, puntelli); perciò nel suo testamento il poeta fece richiesta di farlo bruciare, nel caso in cui non fosse riuscito a completarlo, ma gli amici Vario Rufo e Plozio Tucca, non rispettando le volontà del defunto, salvaguardarono il manoscritto dell'opera e, successivamente, l'imperatore Ottaviano Augusto ordinò di pubblicarlo così com'era stato lasciato. Enea è una figura già presente nelle leggende e nella mitologia greca e romana, apparendo spesso anche nell'Iliade; Virgilio mise insieme i singoli e sparsi racconti dei viaggi di Enea, la sua vaga associazione con la fondazione di Roma e soprattutto un personaggio dalle caratteristiche non ben definite tranne una grande devozione (pietas in latino), e ne trasse un avvincente e convincente "mito della fondazione", oltre a un'epica nazionale che allo stesso tempo legava Roma ai miti omerici, glorificava i valori romani tradizionali e legittimava la dinastia giulio-claudia come discendente dei fondatori comuni, eroi e dèi, di Roma e Troia. (LA)
«Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris (IT)
«Canto l'armi e l'eroe, che primo dai lidi di Troia, profugo per fato, giunse in Italia alle spiagge di Lavinio, vessato alquanto attraverso terre e in aperto mare da ira divina, …» La divisione in dodici libri esprime la volontà di conciliare due esigenze, quella della brevitas alessandrina (il cui modello sono i quattro libri delle Argonautiche) con la maggior lunghezza del poema classico omerico (Iliade e Odissea, composti da ventiquattro libri ciascuno). L'orientamento alessandrino verso il poema breve risalta ancor di più se si pensa che i dodici libri di Virgilio rivaleggiano con entrambi i poemi omerici: i primi sei libri rinviano infatti al modello dell'Odissea (il viaggio avventuroso); gli altri sei al modello dell'Iliade (la guerra). L'ordine delle vicende, rispetto ad Omero, viene rovesciato e l'avventura viene trattata prima della guerra. Col suo modello Virgilio instaura un rapporto di raffinata competizione innovativa. Il viaggio di Ulisse era un viaggio di ritorno, quello di Enea è un viaggio di rifondazione proiettato verso l'ignoto; la guerra nell'Iliade era una guerra di distruzione, quella di Enea è rivolta alla costruzione di una nuova città e di una nuova civiltà; l'Iliade si concludeva con la disfatta troiana, l'Eneide termina con la vittoria del troiano Enea, che risarcisce il suo popolo della patria perduta. Il viaggio verso l'Italia (libri I-VI)Libro IAlla maniera omerica, la narrazione, preceduta da un proemio, comincia "in medias res", presentando la flotta troiana nel Mediterraneo mentre naviga guidata da Enea alla volta dell'Italia dove spera di trovare una seconda patria.
Dopo quattro versi di cui gli studiosi, sia antichi sia moderni, hanno ampiamente dibattuto la paternità virgiliana,[2] nel proemio Virgilio dichiara l'argomento del suo poema (Arma virumque cano…, "Canto le armi e l'uomo…") con un'invocazione alla Musa (Musa, mihi causas memora…, "O Musa, ricordami le cause…"). Di seguito, spiega l'origine del conflitto più importante della trama, ovvero il rancore di Giunone nei confronti dei Troiani. Questo tipo di incipit mantiene lo stile di quelli dei poemi omerici, tranne per il fatto che Virgilio prima dichiara il tema del poema, e poi invoca la Musa, mentre in Omero è l'inverso ('Armi canto e l'uomo...', dove le armi richiamano l'Iliade, mentre l'uomo riecheggia l'Odissea). Enea, esule dalla città di Troia, tenta di raggiungere il Lazio per fondarvi una nuova città e portare in Italia i Penati, per far nascere una stirpe nobile e coraggiosa e una razza che sarà conosciuta e rispettata da tutti i popoli, come stabilito da una profezia. Parte con una flotta di venti navi, nonostante l'opposizione di Giunone. La dea è adirata per tre motivi:
Dopo sette anni dalla distruzione di Troia, i profughi stanno veleggiando nel Mar Tirreno, al largo della Sicilia, quando Giunone li vede. La dea, al colmo dell'ira, si reca in Eolia, patria dei Venti, da Eolo, che li custodisce tenendoli rinchiusi in un otre all'interno di un massiccio montuoso, per chiedergli di scatenare una tempesta. La dea offre a Eolo Deiopea, la ninfa più bella di Giunone, ma il re dei venti, pur accettando, le ricorda che è comunque suo dovere fare ciò che gli viene richiesto dalla regina degli dei, in quanto il suo potere deriva da lei, indifferentemente dal dono. E il maltempo danneggia pesantemente la flotta, provocando anche l'affondamento della nave dei Lici - alleati dei Troiani -, molti dei quali muoiono annegati, compreso il loro capo Oronte. Nettuno se ne accorge e, nonostante non sia neppure lui amico dei Troiani, si infuria per l'intrusione di altri nei suoi domini; spinto anche dal rispetto per il valore di Enea, interviene placando i venti e calmando le acque (come un uomo saggio placa una sommossa). La flotta riesce così ad ancorare sulla costa d'Africa, in Libia, nei pressi di una nuova città che sta venendo costruita, Cartagine. Preoccupata per la sorte del figlio, Venere intercede a suo favore presso Giove. Questi la rassicura dicendole che, ottenuta la benevolenza di Giunone, l'eroe vedrà premiati i suoi sforzi, con la prima profezia dell'Eneide (Enea governerà tre anni, il figlio Ascanio Julio trenta, e i suoi discendenti, fino a Romolo e Remo, per trecento; inoltre, la sua stirpe dominerà il mondo e non avrà mai fine). Quindi il re degli dei invia Mercurio a Cartagine, col compito di predisporre i Cartaginesi a una favorevole accoglienza di Enea e i compagni superstiti. Nel frattempo Venere, assunte le sembianze di una giovane cacciatrice, molto somigliante alla dea Diana, si manifesta al figlio per spiegargli la vicenda della città, fondata dai Fenici emigrati dalla propria terra al seguito della regina di Tiro, Didone, fuggita dopo che il fratello Pigmalione le aveva ucciso il marito Sicheo per impadronirsi del regno. Enea si reca dunque fiducioso in quella città, ricevendo ottima accoglienza dalla regina, poiché anch'ella ha patito dolori. Venere, temendo le insidie di Giunone, ordina al figlio Cupido, dio dell'amore, di prendere il posto di Ascanio, il figlio di Enea, assumendone le sembianze, affinché, toccando il cuore della regina, questa si innamori dell'eroe. Didone così offre un importante banchetto ai Troiani e invita Enea a narrare in quella sede le sue traversie. Sinossi con numero dei versi
Libro II(LA)
«Infandum regina iubes renovare dolorem» (IT)
«Regina, tu mi costringi a rinnovare un dolore inesprimibile» Durante il banchetto che viene dato in onore dei Troiani, Enea racconta la sua storia e le sue vicende e i fatti che hanno provocato il fortuito arrivo della sua gente da quelle parti, a partire dalla caduta di Troia. L'astuto Ulisse aveva trovato il modo di riuscire a entrare nella città facendo costruire un enorme cavallo di legno, che avrebbe racchiuso nascosti al suo interno lui e alcuni dei migliori guerrieri greci. I Troiani, all'oscuro di tutto, ingannati peraltro dall'acheo Sinone che aveva millantato loro la partenza dei greci (poi rivelatasi falsa; egli aveva anche fatto credere di essere stato minacciato da Ulisse) e, incuriositi dal cavallo, avevano deciso di trasportarlo dentro le mura della città, incuranti degli avvertimenti di Cassandra, Capi e Laocoonte, che fu per questo stritolato insieme ai due figlioletti da una coppia di serpenti marini inviati da Minerva. Usciti nottetempo dal cavallo, i guerrieri greci avevano cominciato a mettere Troia a ferro e fuoco. Enea, svegliato all'improvviso dal fantasma di Ettore, aveva visto con orrore che cosa stava succedendo alla sua amata città natale. Radunati alcuni guerrieri, tentò di organizzare la difesa dalla città: il principe frigio Corebo si unì al gruppo, ma cadde ucciso da Peneleo nel tentativo di salvare Cassandra, la figlia di Priamo di cui era innamorato, dalle grinfie dei greci. Il capo troiano assistette anche alla barbara uccisione del re Priamo da parte di Pirro Neottolemo, il figlio di Achille. Allontanatosi dai luoghi più pericolosi, Enea si imbatté nella bella Elena, causa prima di tutta quella rovina e fu preso dal desiderio di ucciderla, ma venne fermato dalla madre Venere, che gli disse che la caduta di Troia era voluta dagli dei, e gli consigliò invece di fuggire e di uscire dalla città insieme alla sua famiglia. Egli aveva quindi capito che i suoi parenti stavano correndo un grave pericolo ed era corso da loro. Enea racconta quindi la sua fuga col figlio Iulo sul cui capo era comparso un prodigio luminoso e il vecchio padre Anchise caricato sulle proprie spalle, mentre sua moglie Creusa non era riuscita a rimanere assieme con loro ed era perita nella catastrofe generale: apparve come ombra a Enea che la cercava, raccomandandogli di vigilare sempre sul loro figlioletto. Sinossi con numero dei versi
Libro IIIEnea racconta come, dopo aver radunato molti altri sopravvissuti (troiani e loro alleati) avesse costruito una flotta di navi: con queste era approdato in varie zone del Mediterraneo, tra le quali il Chersoneso Tracico e l'isola di Delo. Durante la prima tappa è significativo l'incontro con un cespuglio sanguinante, contenente "l'anima insepolta" di Polidoro (il figlio di Priamo e di Ecuba), fatto uccidere dall'avido Polimestore, il quale voleva impossessarsi delle sue ricchezze. Enea ordinò ai suoi compagni di provvedere alla tumulazione per il principe troiano, permettendogli così di poter accedere finalmente all'Ade. Nella seconda, invece, Enea chiese all'oracolo di Apollo quale fosse la nuova terra dove avrebbe dovuto portare i superstiti Troiani. Apollo rispose: "Cercate l'antica madre; qui la stirpe d'Enea dominerà su tutte le terre e su tutti i discendenti" (lat. "... antiquam exquirite matrem. Hic domus Aeneae cunctis dominabitur oris et nati natorum et qui nascentur ab illis"). Anchise, il padre di Enea, credette che la terra d'origine dei Troiani fosse l'isola di Creta, da dove sarebbe partito il capostipite Teucro: i Troiani con i loro capi vi si recano e fondano una città; ma qui gli dei Penati di Troia apparvero in sogno all'eroe spiegandogli che l'"antica madre" non era Creta, ma la (misteriosa) città di Corythus in Italia (variamente identificata con diverse città etrusche; l'identificazione con Cortona risale a Silio Italico, 4.718-21 e 5.123): "lì nacque Dardano da cui deriva la nostra stirpe" (vv. 161-171). Enea approdò poi nelle isole Strofadi dove venne perseguitato dalle Arpie che le abitavano. Qui l'Arpia Celeno gli profetizzò che sarebbe arrivato in Italia ma per la fame avrebbe dovuto mangiare anche le "mense". Un altro luogo dove poi s'era recato Enea era stato Butroto nell'Epiro (nell'odierna Albania), una città costruita da profughi a somiglianza di Troia. Qui aveva incontrato Andromaca, moglie di Ettore, che aveva ancora una volta pianto con lui per aver perduto il suo eroico marito e il suo figlio adorato, Astianatte. Enea incontrò anche il nuovo sposo della donna, Eleno figlio di Priamo, dotato del dono della profezia. Per suo tramite, Enea ebbe conferma che doveva recarsi in Italia. Eleno gli consigliò anche di recarsi a Cuma dalla famosa Sibilla. Enea aveva così lasciato Butroto rimettendosi in mare. Superate le insidiose Scilla e Cariddi e sbarcato con la flotta in Sicilia, scampò con i suoi uomini ad un attacco del ciclope Polifemo, salvando anche Achemenide, un superstite compagno di Ulisse. Ripreso il mare, nel corso della navigazione, Enea e i suoi giunsero a Drepano (l'odierna Trapani), dove morì Anchise stremato da tanti viaggi. Stavano dirigendosi verso il Lazio quando Giunone fece scatenare la tempesta che li avrebbe poi portati a Cartagine. Sinossi con numero dei versi
Libro IVDidone, regina di Cartagine, si rivolge alla sorella Anna, ammettendo i sentimenti per Enea, che ha riacceso l'antica fiamma d'amore ("Agnosco veteris vestigia flammae"), il solo per cui violerebbe la promessa di fedeltà eterna fatta sulla tomba del marito Sicheo. Anna riesce a persuaderla: la sorella è infatti sola e ancora giovane, non ha prole e ha troppi nemici intorno. Il sostegno di un guerriero come Enea può servire molto a una città ancora debole come Cartagine. Didone allora non sente più remore e, date le parole di Anna, lascia che la passione amorosa per Enea la pervada completamente. Immolata una giovenca al tempio, la regina riconduce Enea nelle mura. È notte. Giunone allora propone a Venere di combinare tra i due giovani il matrimonio. Venere, che intuisce il disegno di sviare Enea dall'Italia, accetta, pur facendo presente a Giunone la probabile avversità del Fato. L'indomani stesso, Didone ed Enea partono a caccia, ma una tempesta li sconvolge: si rifugiano così in una spelonca, consacrando il rito imeneo. La Fama, mostro alato, avverte del connubio Iarba, pretendente respinto di Didone e re dei Getuli, che invoca Giove. Il padre degli dei invia il suo messaggero Mercurio a ricordare a Enea la fama e la gloria che attendono la sua discendenza. Enea allora chiama i suoi compagni, arma la flotta e si appresta a partire, pensando al modo più agevole di comunicare la decisione a Didone. Ma la regina, già informata dalla Fama, corre infuriata da Enea, biasimandolo di aver cercato di ingannarla e ricordandogli del loro amore e della benevolenza con cui l'aveva accolto, rinfacciandogli poi di non avere neppure coronato il loro sentimento con un figlio. Enea, pur riconoscendole i meriti, spiega che non può rimanere, perché è obbligato e continuamente sollecitato dagli dei e dall'ombra del defunto padre Anchise a cercare l'Italia (Italiam non sponte sequor, v. 361). Ritornato alla flotta, rimane impassibile alla rinnovata richiesta di trattenersi mossa da Anna e alle maledizioni di Didone, che è perseguitata dal dolore con continue visioni maligne. Riferita la decisione di dedicarsi alle arti magiche per alleviare tante pene, la regina ordina quindi alla sorella di mettere al rogo tutti i ricordi e le armi del naufrago nella sua casa e invoca gli dei. Così, nella notte, mentre la regina escogita il modo e il momento del suicidio per porre fine a tanti affanni, Enea, avvertito in sonno, fugge immediatamente da quella terra. All'aurora, con la vista del porto vuoto, Didone invoca gli dei contro Enea, maledicendolo e augurandogli sventure, persecuzioni e guerra eterna tra i loro popoli. Giunta sulla pira funeraria, si trafigge con la spada di Enea, mentre le ancelle e la sorella invocano disperate il suo nome. Giunone poi invia Iride a sciogliere la regina dal suo corpo e a recidere il capello biondo della sua vita. Voltandosi indietro dal ponte della sua nave, Enea vede il fumo della pira di Didone e ne comprende chiaramente il significato: tuttavia il richiamo del destino è più forte e la flotta troiana fa vela verso l'Italia. Sinossi con numero dei versi
Libro VEnea con le navi tiene deciso la rotta, ma il cielo è pieno di enormi nubi minacciose, che danno presagio di un oscuro temporale. Palinuro, il timoniere della nave di Enea, è spaventato e teme che la flotta non riesca ad arrivare in Italia. Accorgendosi che la tempesta sta portando le navi verso le coste sicule, Enea decide di approdarvi. I troiani sbarcano presso Erice dove il re Aceste lietamente li accoglie e offre il suo aiuto. L'indomani, Enea parla ai compagni per informarli della commemorazione per l'anno trascorso dalla morte del padre Anchise, trovandosi inoltre vicini alle sue ceneri e ossa. Egli vuole celebrare l'onore, invocare i venti e gli onori nei tempi a lui dedicati con un banchetto ai Penati e coi giochi funebri, quali corsa di navi, a piedi, lancio del giavellotto e con frecce, mettendo in palio splendidi premi. Dopo aver chiesto due capi di buoi per ogni nave, cosparge le sue tempie con mirto sacro e raggiunge il tumulo. Glorifica quindi con due coppe di vino, due di latte e con fiori purpurei la terra e si rivolge al padre, salutandolo e rammaricandosi di averlo perso prima di aver raggiunto l'Italia. Subito però, un enorme serpente appare strisciando, gustando le vivande disposte per il sacrificio. Stupito, immola due pecore, seguite dalle offerte dei suoi compagni. Arrivata l'aurora, tutti si apprestano a gareggiare. Prima dell'inizio, Enea pone al centro dell'arena, in vista, i doni: tripodi, corone, palme, armi, vesti purpuree, talenti d'oro e d'argento. La tromba suona e si dispongono per la prima gara, una regata, quattro navi: Pristi di Mnesteo, Chimera del giovane Gia, Centauro di Sergesto e Scilla di Cloanto. Enea pone allora sullo scoglio dirimpetto alla riva una verde meta di elce frondoso. Ricevuto il segnale, partono. Se dapprima sono tutti a pari merito, Gia supera e guadagna la prima posizione, seguito da Cloanto. Menete, il timoniere della Chimera, raggiunta la roccia, non riesce a virare velocemente, scatenando la furia del comandante che getta il compagno maldestro in mare, tra le risate dei Teucri, per essere poi superato dalle altre navi. Ma il Centauro di Sergesto, intento a sorpassare la nave di Mnesteo, si incastra in uno scoglio. La Pristi ora gode quindi del secondo posto, quasi vicino al primo della Scilla. Il furbo Cloanto, accorgendosi dell'abilità dell'avversario, fa un voto con promessa di sacrificio di un toro in caso di trionfo. Gli dei spingono così vento propizio e la nave giunge vittoriosa al traguardo. Radunati tutti i comandanti Enea consegna allora al vincitore porpora con fregi, al secondo una pesante corazza intrecciata d'oro e al terzo due catini bronzei e due coppe d'argento. Solo più tardi giunge Sergesto con la nave danneggiata e, per il coraggio dimostrato, si aggiudica Foloe, una schiava coi suoi due figli gemelli. Enea raduna allora Teucri e Sicani per la gara di corsa su una piana erbosa. Vi partecipano i due giovani troiani Eurialo e Niso, amici inseparabili, il principe dei Teucri Diore, e i Sicani Salio (un giovane di origine acarnana), Patrone, Elimo e Panope. Rassicurandoli dei premi sicuri per tutti di due frecce, del ferro e un bipenne, espone quelli per i tre migliori: un cavallo per il primo, faretra e frecce al secondo e al terzo un elmo argolico. Niso si porta subito al comando, inseguito da Salio, Eurialo, Elimo, Diore. Ma, quasi alla fine, Niso scivola sul sangue dei giovenchi immolati e, per impedire la vittoria a Salio, si rialza proprio davanti a lui, che scivola a sua volta. Eurialo, Elimo e Diore ritirano i premi, che però vengono anche concessi ai due atleti non classificati: per Niso uno scudo, a Salio un'enorme pelle di leone. Nella disciplina successiva si battono i pugili: i premi consistono in un giovenco ornato d'oro al vincitore, e al vinto spada e elmo. Subito si propone il maturo troiano Darete, che in passato aveva atterrato immediatamente Bute, re dei Bebrici. Inizialmente nessuno vuole sfidare il possente Darete, che superbo pretende subito la vittoria a tavolino. Insoddisfatto da un tale epilogo Aceste offre la pugna ad Entello che orgoglioso accetta, benché più vecchio di Darete; egli butta al centro dell'arena i propri cesti, ereditati dal suo maestro Erix, il colossale fratello di Enea[3], che fu sconfitto soltanto da Eracle. A tale vista tutti stupiscono: quei cesti sono enormi, quelli di Darete sono ben minori; a tale confronto si ricusa. Dunque Entello offre al troiano una sfida ad armi pari: che entrambi rinuncino ai proprii cesti, utilizzandone invece altri eguali, provvisti da Enea; questa sfida stavolta viene accettata. Entello passa dalla difesa all'attacco ed infligge all'avversario una lezione durissima, dedicando il duello vittorioso alla memoria di Erice. Inizia quindi la gara con l'arco, a cui partecipano Ippocoonte (fratello di Niso), Mnesteo, Euritione e Aceste. La gara consiste nel centrare una colomba volante posta sulla sommità dell'albero maestro della nave di Sergesto. Se Ippocoonte fallisce completamente, Mnesteo colpisce il filo di lino a cui il volatile è appeso, dando modo a Euritione di trafiggerlo in pieno. Aceste, già perdente, lancia comunque il dardo: questo brucia al contatto con la canna, per poi tracciare una via con le fiamme e sparire nel vento. Attoniti, tutti accolgono il segno come un presagio favorevole ed Enea cinge Aceste d'alloro, invitando poi il servo Epitide a chiamare Iulo per la parata dei fanciulli, guidata da Ascanio su un cavallo regalatogli da Didone, e dal suo migliore amico Ati, avo di Ottaviano. Giunone manda Iride a spirare venti sulla flotta di Enea. Scesa veloce sulla terra, si trasforma in Beroe e comunica alle mogli dei Troiani di erigere le mura proprio nella città, essendo stata avvertita della volontà divina dall'immagine di Cassandra, in sogno. Le invita inoltre a bruciare le navi e, afferrato un tizzone, lo scaglia. Ma Pirgo, la vecchia nutrice dei figli di Priamo, capisce che non si tratta di Beroe. La dea subito si dissolve levandosi in alto e le altre donne, già dubbiose, interpretando questo come un segno divino, iniziano a dar fuoco alla flotta. Vulcano, dio del fuoco, infuria. Eumelo riferisce il misfatto; Ascanio è avvisato per primo e raggiunge il campo delle donne, rimproverandole fortemente. Enea e i Teucri sopraggiungono altrettanto velocemente, ma le donne per timore fuggono e, rinnegando Giunone, il loro gesto e la luce, si rifugiano in selve e grotte. Intanto le fiamme divampano e l'acqua versata per placarle non riesce a domarle. Il figlio di Venere allora invoca Giove e subito una tempesta con violenti scrosci di pioggia pone fine all'incendio e salva quindici imbarcazioni su diciannove. Dopo questi avvenimenti Enea, ancora una volta dimentico dei Fati, cade nell'incerto se stabilirsi in Sicilia o cercare il Lazio. In quel momento Naute lo sprona a perseguire anche con la sofferenza il volere del Fato e gli consiglia di affidare a quella città, in seguito Acesta, la sorte dei compagni in soprannumero, in prevalenza donne e vecchi stanchi delle peregrinazioni. Si viene comunque a creare una compensazione con alcuni sudditi di Aceste (tra cui Salio) che decidono di aggregarsi ad Enea. Sempre più pensieroso, Enea vede nella notte la figura di Anchise mandato da Giove che lo invita a sottomettersi al destino: gli ordina di recarsi, prima che in Italia, alle sedi infere di Dite, nel profondo Averno, nell'Elisio, con l'aiuto di una sibilla. Avvertiti i compagni, Enea circoscrive con un aratro la città, dove regnerà gente di stirpe troiana e dove Aceste porrà senato e leggi. Fondano anche un tempio nei pressi di un bosco, istituendo un sacerdozio in onore di Venere. Dopo aver banchettato nove giorni, attendono che i venti siano favorevoli e, prima di partire, immolano tre vitelli a Erice, un agnello a Tempeste e sciolgono gli ormeggi. Con la tristezza e il conforto della città fondata, salpano, e gettano come nuovo rito i visceri in mare. Venere, preoccupata, si rivolge a Nettuno, riferendogli dell'implacabile ira di Giunone, che tanto assilla suo figlio nonostante le molteplici vendette già attuate e affidandogli la salvezza delle navi troiane sino al Tevere. Il dio l'asseconda, preannunciandole la morte di uno solo tra i compagni di Enea. Venere si rallegra. Giunta notte, mentre i marinai si apprestano a dormire, il dio Sonno tenta Palinuro, che dapprima resiste ma poi, scosso e insonnolito, cade in mare. Invano chiama i compagni, mentre la nave continua a viaggiare per mare. Avvicinatosi agli scogli delle sirene, Enea nota con suo dispiacere l'assenza del nocchiero, prende il controllo dell'imbarcazione e spera che il compagno approdi un giorno su qualche spiaggia ignota, timoniere troppo fiducioso nel cielo e nel mare. Sinossi con numero dei versi
Libro VIEnea e i suoi compagni sbarcano a Cuma, in Campania, dove l'eroe, memore dei consigli di Eleno, si reca nel tempio di Apollo. La somma sacerdotessa di Apollo, la Sibilla Deifobe, figlia di Glauco, invasata dal dio durante il vaticinio, gli rivela che riuscirà ad arrivare nel Lazio, ma per ottenere la nuova patria dovrà affrontare odi e guerre, essendo inviso a Giunone: ella profetizza anche la comparsa di un nuovo Achille (che si rivelerà poi Turno). Su sua richiesta, la Sibilla guida Enea nel regno del dio Ade, ovvero l'Aldilà secondo la religione greca e romana. Prima di entrare nell'Ade vero e proprio Enea deve procurarsi nel bosco un ramo d'oro da offrire a Proserpina; l'eroe e la Sibilla devono passare quindi su una delle due rive del fiume Acheronte, attraversando la zona dove vagano senza pace tutte le anime dei morti rimasti insepolti, e qui incontrano Palinuro, che narra del suo assassinio e del suo corpo lasciato insepolto dai Lucani (Nunc me fluctus habet versantque in litore venti). Supplica poi Enea di cercare i suoi resti o di aiutarlo ad attraversare il fiume: la Sibilla gli dice che è inutile sperare di mutare i fati divini con la preghiera (desine fata deum flecti sperare precando); poi, per mitigare l'amarezza del pilota, gli rivela che presto avrà comunque un suo tumulo sepolcrale (che darà pace alle sue ossa e consentirà finalmente alla sua ombra di varcare il fiume infernale). Caronte, lo psicopompo dell'Ade, ostacola il loro ingresso a bordo della sua barca, sostenendo che i vivi finora traghettati sono stati per lui grave fonte di problemi. Quando però gli mostrano il ramo d'oro, chiave degli inferi che portano con loro, acconsente a trasportarli. Dopo aver superato l'ostacolo di Cerbero, Enea e la sacerdotessa incontrano prima le anime di molti troiani caduti in guerra, come Medonte, poi quelle dei suicidi per amore (nei campi del pianto, lugentes campi): tra queste v'è anche Didone, che reagisce gelidamente al passaggio di Enea, il quale scoppia in un pianto disperato. Giunti alla diramazione tra la via per il Tartaro e quella per i Campi Elisi, incontrano l'ombra del poeta Museo, che porta Enea da Anchise: Enea tenta invano di abbracciare il padre per tre volte. Anchise spiega dunque ad Enea la dottrina di cicli e rinascite che sostiene l'universo, e gli mostra le ombre dei grandi uomini che rinasceranno nella città che Enea stesso con la propria discendenza contribuirà a fondare, ovvero i grandi personaggi di Roma, come Catone e Fabio Massimo: molti popoli - afferma Anchise in un noto passo - otterranno gloria nelle belle arti, nella scienza o nel foro, ma i Romani governeranno il mondo con la sapienza delle leggi, perdonando i vinti e annientando solo chi si opporrà: Tu regere imperio populos, Romane, memento / (hae tibi erunt artes) pacique imponere morem / parcere subiectis et debellare superbos (Aen. VI, 851-53). Dopo che Anchise ha profetizzato la prematura morte del nipote di Augusto, Marcello, Enea e la Sibilla risalgono nel mondo dei vivi, passando per la porta dei sogni. Sinossi con numero dei versi
La guerra latina (libri VII-XII)Libro VIII troiani salpano da Cuma e giungono in un porto della Campania situato a Nord, qui muore Caieta, la nutrice di Enea, nell'Esperia. Stanchissimi e affamati (tanto da mangiare le mense, piatti di focaccia dura, proprio come avevano previsto le arpie), sbarcano alla foce del Tevere; Enea decide quindi di inviare un ambasciatore di nome Ilioneo al re del luogo, Latino. Questi accoglie con favore l'emissario di Enea, e gli dice di essere a conoscenza che Dardano, il capostipite dei Troiani, era nato nella città etrusca di Corito (VII 209: ab sede Tyrrena Corythi). Ilioneo risponde: "Da qui ebbe origine Dardano... Qui Apollo ci spinge con ordini continui"(VII 240). In ogni caso Latino si mostra favorevole ad accogliere i Troiani perché suo padre, il dio italico Fauno, gli ha preannunciato che l'unione di uno straniero con sua figlia Lavinia avrebbe generato una stirpe eroica e gloriosa: per questo motivo il re aveva in precedenza rifiutato di concedere Lavinia in moglie al giovane re dei Rutuli, Turno, anche lui semidio (in quanto figlio della ninfa Venilia): la volontà degli dei si era manifestata anche attraverso prodigi. La piega che gli eventi stanno prendendo non piace a Giunone che con l'aiuto di Aletto, una delle Furie, rende geloso Turno e spinge la moglie del re, Amata, a fuggire nei boschi con la figlia e a fomentare l'odio verso gli stranieri nella popolazione locale. L'uccisione del giovane valletto latino Almone, colpito alla gola da una freccia durante una rissa fra Troiani e Italici provocata dalla Furia, scatena la guerra: Turno, nonostante il parere contrario di Latino, raduna un esercito da inviare contro i Troiani. Il suo alleato principale è Mezenzio, il re etrusco di Cere, cacciato dai sudditi per la sua crudeltà: vi sono poi, tra gli altri, Clauso, principe dei Sabini, alla testa di un corpo militare particolarmente imponente; i due semidei italici Ceculo e Messapo, figli rispettivamente di Vulcano e Nettuno; Ufente, capo degli Equi; Umbrone, condottiero dei Marsi e noto serparo; Virbio, giovane re di Aricia e nipote di Teseo; la vergine guerriera Camilla, regina dei Volsci. Sinossi con numero dei versi
Libro VIIIMentre guarda le truppe nemiche che si radunano sulla sponda opposta del Tevere, Enea cade addormentato e in sogno gli appare il dio del fiume Tiberino che, dopo avergli annunciato che lì suo figlio Ascanio fonderà una città di nome Alba, gli suggerisce di allearsi con Evandro, principe di una cittadina del Palatino. Il giorno successivo Enea risale il fiume ed entra nella città. Qui il figlio di Evandro, Pallante, lo riceve benevolmente. Enea, parlando al re, gli ricorda il comune antenato dei loro due popoli Atlante, e gli chiede aiuto. Evandro risponde che Tarconte, capo di tutti gli Etruschi, ha riunito i reggitori delle varie città, coi loro eserciti, per condurre una guerra proprio contro Turno e Mezenzio, ma affiderebbe volentieri il comando delle operazioni a Enea. Il capo troiano accetta e si dirige immediatamente verso "le spiagge del re etrusco"; Tarconte lo riceve nel proprio "campo" federale che si trova presso il bosco del dio Silvano. In quei pressi Venere consegna a Enea armi divine e soprattutto uno scudo opera di Vulcano, su cui sono rappresentate scene della futura storia di Roma, dalla nascita di Romolo e Remo al trionfo di Augusto dopo la vittoria di Azio. Sinossi con numero dei versi
Libro IXMentre Enea si trova in Etruria, presso Tarconte, la dea Iride va ad avvisare Turno che "Enea è giunto fino alla lontana città di Corito (Tarquinia) e sta assumendo il comando della banda degli agresti Etruschi confederati" (IX,9). Turno allora, approfittando dell'assenza di Enea, sferra un assalto contro l'accampamento troiano, ma i Troiani riescono a resistere. Turno vuole bruciare le loro navi, ma grande è il suo stupore quando vede emergere, nel posto dove esse si trovavano, una moltitudine di Ninfe. Capisce allora che non è il momento di attaccare i Troiani, perché significherebbe inimicarsi gli dei. Dà quindi ordine di porre assedio al campo troiano a quattordici giovani condottieri del suo esercito (ciascuno dei quali è alla testa di un contingente composto da altri cento giovani) e agli uomini di Messapo. Nella stessa notte, gli inseparabili amici Eurialo e Niso si propongono di raggiungere Enea attraversando le linee nemiche. Entrano nel campo dei Rutuli, che trovano tutti addormentati, e decidono di farne strage. A iniziarla è Niso che armato di spada colpisce un alleato molto caro a Turno, ovvero il giovane re e augure Ramnete, sorpreso a russare un sonno particolarmente affannoso fra i tappeti ammucchiati a mo' di pagliericcio, e tre suoi servi, tutti adolescenti; le vittime successive sono lo scudiero e l'auriga di Remo, e il condottiero stesso, decapitato di netto da Niso che lascia il busto sul letto facendone colare tutto il sangue; e appresso al signore, il troiano recide la testa anche ad alcuni guerrieri del suo gruppo, tra cui l'insigne giovinetto Serrano, disteso al suolo per l'effetto soporifero dell'abbondante gozzoviglia alla quale si era dato dopo aver allegramente giocato a dadi. La strage ai danni degli italici viene proseguita da Eurialo, le cui vittime sono uomini di basso lignaggio. Uno di essi, Reto, svegliatosi improvvisamente, cerca di fuggire, venendo però anch'egli ucciso da Eurialo. Usciti dall'accampamento dei Rutuli, Eurialo e Niso vengono intercettati da un gruppo di cavalieri italici guidati da Volcente e costretti a nascondersi: Volcente cattura Eurialo e lo uccide, sicché Niso viene allo scoperto per vendicare l'amico e si scaglia contro il suo assassino, riuscendo a ucciderlo, ma muore subito dopo, trafitto dalle armi degli uomini di Volcente. Turno, infuriato per l'incursione compiuta da Eurialo e Niso, attacca nuovamente il campo dei Troiani. Ascanio si rende autore del suo primo atto d'eroismo militare trafiggendo mortalmente Numano, il cognato di Turno. Questi furibondo distrugge la palizzata, uccidendo i due giganteschi fratelli Pandaro e Bizia. Il re rutulo entra quindi nel campo nemico e fa strage di troiani in fuga: solo l'eroico Linceo cerca di assalire Turno con la spada snudata ma, prevenutolo, il Rutulo gli fa volare via di spada la testa con l'elmo mandando a giacere il busto a terra; rimbrottati dai loro capi i Troiani assalgono Turno che viene circondato dalle lance ed è costretto a tuffarsi nel Tevere per mettersi in salvo (in seguito ritornerà dai suoi compagni trasportato dalla corrente). Sinossi con numero dei versi
Libro XNel frattempo sull'Olimpo è in atto un duro scontro tra gli dei: Giove è irritato per lo scoppio della guerra, Giunone addossa la colpa ai Troiani e Venere implora Giove di non abbandonarli proprio mentre sono circondati da forze molto più numerose delle loro. Enea, intanto, ha assunto il comando della Lega Etrusca, e alla testa dell'esercito imbarcato sulla flotta federale, assieme a Tarconte, torna dal territorio etrusco alla foce del Tevere: egli è accompagnato anche dagli Arcadi di Pallante e da Cupavone e Cunaro coi loro Liguri. Quando lo vedono riapparire i Troiani, ancora assediati nel loro campo, riacquistano fiducia. Turno muove l'esercito italico contro il nemico ma Enea, forte dello scudo di Vulcano e della protezione di Venere, è di fatto inarrestabile. Egli si slancia contro i nemici dapprima con la spada, e con essa uccide il gigantesco e coraggioso Terone, per poi ferire mortalmente il giovane Lica. Subito dopo abbatte due fratelli armati di clava, Cisseo e Gia, il cui padre era originario della Grecia, e Faro, con una lancia scagliatagli nella bocca aperta. Si fa allora eroicamente avanti una coppia di guerrieri latini, Cidone e Clizio, legati da un rapporto omoerotico: Enea stende morto il più giovane dei due, Clizio, ovvero colui che aveva preso l'iniziativa, mentre Cidone viene salvato dall'intervento dei sette figli di Forco che si frappongono improvvisamente tra lui ed Enea, il quale è costretto a chiedere al fedele Acate le lance, che scaglia sui suoi assalitori uccidendone un paio, Meone e Alcanore; un terzo fratello, Numitore, ferisce Acate in maniera non grave. Enea e Acate si allontanano mentre i combattimenti riprendono più cruenti di prima: in campo italico si mettono in evidenza Clauso e Messapo. Pallante fa strage di alcuni giovani guerrieri, tra cui i due valorosi gemelli latini Laride e Timbro, figli di Dauco: con la spada decapita Timbro e recide la mano destra a Laride, abbandonandolo moribondo sul terreno. Poi uccide Aleso, l'antico auriga di Agamennone, stabilitosi in Italia dopo la guerra di Troia. Viene quindi affrontato da Turno in duello: sull'Olimpo Ercole, invocato dal giovane prima dello scontro, chiede a Giove se la sua vita possa essere risparmiata, ma il padre ricorda l'inevitabilità del fato: "Stat sua cuique dies, breve et inreparabile tempus/ Omnibus est vitae" (" A ciascuno è dato il suo giorno, il tempo della vita/ è breve e irreparabile per tutti ", Aen. X, 467-468). Turno uccide Pallante, spogliandolo poi del balteo. Enea, infuriato per la morte del suo amico e alleato, lo vendica scagliandosi sui nemici e facendone scempio: innanzitutto cattura vivi otto giovani per immolarli sulla pira che arderà Pallante; poi abbatte Mago ed altri guerrieri tra cui Ceculo (il semidio figlio di Vulcano), Umbrone, Anxure al quale tronca una mano, e pure un sacerdote di Apollo e di Diana, figlio di tale Emone. Quindi affronta il giovane etrusco Tarquito, schierato con Mezenzio e anch'egli semidio, e con la spada gli spicca via la testa dal busto, facendo infine rotolare i resti del nemico, grondanti di sangue, nella foce del Tevere. Le schiere italiche fuggono terrorizzate, ma Enea prosegue con la carneficina: cadono due fedelissimi di Turno, Anteo e Luca, poi Numa e anche Camerte, il biondo signore di Amyclae, nonché figlio di Volcente. Enea uccide inoltre una coppia di fratelli che avevano osato sfidarlo dal carro insultandolo, Lucago e Ligeri, colpendo il primo all'inguine con la lancia scagliata e buttandolo giù dal carro, mentre all'altro apre il petto con la spada. I Rutuli sono così costretti ad allentare l'assedio al campo dei Troiani, che finalmente possono intervenire al fianco di Enea; belle prove vengono offerte da Salio, il giovane sicano di origini greche unitosi a Enea e ai suoi uomini, destinato però a soccombere per mano dell'italico Nealce. Intanto Giunone, temendo per la sorte di Turno, è riuscita ad allontanare il re rutulo dal campo di battaglia. Enea può così affrontare il tiranno etrusco Mezenzio, che sta facendo a sua volta strage di Troiani, ferendolo con la lancia all'inguine; quindi si getta su Lauso, il figlio di Mezenzio accorso in sua difesa, e gli pianta la spada nel petto: toccato dal gesto eroico del giovane, non infierisce sul suo corpo ma lo fa adagiare sul suo stesso scudo restituendolo al padre. Mezenzio inveisce per la morte del figlio ed affronta, benché gravemente impedito, il troiano a duello. Enea uccide con un colpo di lancia il cavallo di Mezenzio e quindi il tiranno stesso, spogliandolo poi delle sue armi che appende nel campo di battaglia, come trofeo per Marte. Sinossi con numero dei versi
Libro XIDopo le celebrazioni per la vittoria su Mezenzio, Enea riporta il corpo di Pallante nella sua città per le esequie, e il padre Evandro chiede che sia vendicato. Enea cerca, intanto, accordi anche con Arpi la grande città fondata da Diomede ai piedi del Gargano. Il re Latino chiede una tregua ai Troiani e si giunge ad un accordo in base al quale vengono decisi dodici giorni di sospensione delle ostilità, per consentire lo svolgimento dei riti funebri di tutti i caduti. Enea, che rispetta Latino memore del fatto che gli avesse offerto la mano della figlia, propone di porre fine alla guerra e di risolvere la questione con un duello tra lui e Turno. Il rutulo rifiuta però la proposta, e dunque il conflitto riprende. Tarconte assale il giovane tiburtino Venulo che viene ucciso dopo aver cercato disperatamente di resistere; in aiuto delle forze latine interviene la cavalleria dei Volsci guidata dalla guerriera Camilla. Nel corso dei combattimenti il giovane etrusco Arunte insidia la vergine che compie stragi, e, dopo averla vista inseguire il troiano Cloreo che attirava l'attenzione per gli ornamenti d'oro, scaglia l'asta e la coglie in pieno petto; Camilla muore, dopo aver inviato la compagna Acca ad avvisare Turno. La dea Diana allora la vendica facendo uccidere Arunte dalla ninfa Opi. L'esercito italico è costretto a ritirarsi lasciando Enea padrone del campo. Sinossi con numero dei versi
Libro XIIVista la difficile situazione, Turno accetta la sfida a duello lanciatagli da Enea, nonostante l'opposizione di Latino e della regina Amata. Giunone interviene nuovamente, convincendo la ninfa Giuturna, sorella di Turno, a radunare l'esercito e mandarlo all'attacco. Il duello è così rinviato e i due eroi si rituffano nei combattimenti. Enea viene ferito da un dardo vagante alla coscia, e Venere deve intervenire per ridargli vigore con una pianta medicinale, il dittamo di Creta. Durante la sosta forzata di Enea i suoi luogotenenti riescono a controllare egregiamente la situazione, soprattutto Acate e Gia, che decapitano rispettivamente Epulone e Ufente: nella mischia muore poi l'augure italico Tolumnio, colui che aveva violato la tregua. La ferita di Enea viene curata e il capo troiano può ritornare a combattere. Enea e Turno, alla guida dei rispettivi eserciti, fanno macello dei rispettivi nemici. Memorabili alcune uccisioni: il rutulo Sucrone, che Enea ferma colpendolo al fianco con la lancia per poi spezzargli con la spada le costole intere una volta caduto al suolo; i fratelli troiani Amico e Diore, uccisi da Turno e poi appesi, con le teste recise, al loro carro; il masso scagliato contro Murrano da Enea che lo catapulta giù dal cocchio e lo fa morire dilaniato dai suoi stessi cavalli che, dimenticatisi di lui, credevano si trattasse di un nemico caduto. Tra le vittime del re rutulo c'è anche Darete. Intanto Amata, credendo che Turno sia morto, si toglie la vita, impiccandosi. Lavinio è assediata dalle truppe e subisce un principio d'incendio. Quando Turno vede che è la sorella, travestita da auriga, ad aizzare i soldati a spezzare la tregua interviene, ordinando alle truppe di fermarsi. La mischia si scioglie e finalmente i due eroi si trovano faccia a faccia per il duello. Gli dei decidono di non intervenire, e anche Giuturna e Giunone sono costrette da Giove a interrompere le loro trame. Enea, scagliata una lancia contro Turno, vince lo scontro ferendo gravemente il nemico: poi sguaina la spada affilata da entrambe le parti e con essa muove verso lo sconfitto, ma si arresta quando Turno lo implora di rendere il suo corpo al padre Dauno ("Tu puoi usar la tua sorte. Ma se del misero padre un pensiero può ancora toccarti, ti prego [...], pietà della vecchiezza di Dauno e, sia pur corpo privo di vita, se questo ti piace, rendimi ai miei. Hai vinto [...]. Di più non voglia il tuo odio"[4]). Quando però vede su di lui il "balteo", cinturone che Turno aveva strappato a Pallante dopo averlo ucciso, la pietà viene meno e prevale la vendetta. Enea affonda la spada nel petto di Turno - che muore emettendo l'anima con un rantolo atroce. Così ha termine, un po' bruscamente, il poema; manca la parte dove Enea sposa Lavinia e si riappacifica con gli Italici, i quali permetteranno quindi ai Troiani di poter finalmente stabilirsi nel Lazio e trascorrere la loro esistenza nella nuova terra.[5] Sinossi con numero dei versi
PersonaggiGli dei presenti nel poema sono:
Inoltre appare Eolo, presentato come il re dei venti, secondo la versione prevalente (e non una divinità vera e propria, come invece in qualche altro testo classico). Il personaggio principale è il principe troiano Enea, eroe pius ossia devoto e rispettoso della religione e dunque uomo caro alla maggior parte degli dei. Enea è un guerriero valoroso e un capo maturo e responsabile. Si sottomette completamente al volere degli dei, si prende cura della famiglia (la sposa, il figlio, il vecchio padre) e dei suoi soldati, è leale e risoluto, ma ha momenti di debolezza, incertezza e dubbio. Per il resto, Enea incarna le virtù dei grandi personaggi romani:
La pietas, una delle doti di Enea, rappresenta il senso del dovere, la devozione, il rispetto delle norme che regolano i rapporti tra gli dei e tra gli uomini. Solo occasionalmente l'eroe cede alla ferocia, come quando priva il giovane Tarquito della sepoltura, impedendo in tal modo all'anima del nemico morto di raggiungere i cancelli dell'Ade. Enea inoltre non rispecchia fedelmente i modelli omerici, Achille ed Ulisse. Infatti non è curioso ma cerca solo di adempiere al fato che lo fa andare avanti (labor = fatica), è valoroso ma non cerca guerre (labor = guerra). Nel secondo libro del poema largo spazio viene dato ai familiari di Enea durante la descrizione della caduta di Troia, col prodigio divino per Ascanio, la scomparsa di Creusa e l'azione determinante di Anchise, che convincerà il figlio Enea a non cercare una morte gloriosa ma un destino diverso per i suoi discendenti. Nel quarto libro a Enea si contrappone la figura tragica ed eroica della regina Didone, che prima cerca di trattenerlo presso di sé a Cartagine, con doni e favori ma poi, abbandonata, si suicida con la spada di Enea, invocando vendetta. A partire dal settimo libro l'antagonista principale di Enea è Turno, il giovane re dei Rutuli, promesso sposo di Lavinia, a tratti feroce in guerra, ma mai presentato come figura negativa. Turno è anch'egli un uomo animato da profonda religiosità, tratta con grande rispetto i genitori della promessa sposa e lo si vede spesso in ansia per la sorte del suo popolo: l'unico suo tratto poco nobile è una certa tendenza all'ostentazione. Agli antipodi di Enea sta semmai il maggior alleato di Turno, Mezenzio, per il suo spregio verso dei e nemici: tuttavia la morte di suo figlio Lauso rivelerà anche in quest'uomo apparentemente insensibile alcuni tratti di insospettata umanità. L'Eneide è anche il poema degli eroi giovanissimi, strappati troppo presto alla vita per colpa della guerra: il poeta mette sempre in risalto le loro uccisioni, siano essi di parte troiana e filotroiana (Eurialo e Niso, Corebo, Pallante, Salio, tra i tanti) o italica (Camilla, Umbrone, Tarquito, Clizio, Lauso, Camerte, Lica, il cortigiano Almone, i gemelli Laride e Timbro, il bellissimo Serrano, e molti altri ancora). AmbientiL'ambientazione è molto differente in quanto ci sono luoghi che vanno dall'Asia alla Grecia, con descrizioni dell'Africa settentrionale, della Sicilia e dell'Italia. Da un lato si hanno paesaggi naturali descritti molto attentamente, dall'altro le mitiche città antiche. Queste sono mostrate o fiorenti o ancora in fase di costruzione o come premonizioni di futuri monumenti e città: particolare importanza assumono le residenze reali, dalla reggia di Troia a quella fenicia di Didone fino a quella rustica di Latino. Molto dettagliata è la descrizione del sito dove sorgerà la futura Roma o di luoghi dove sorgeranno templi o oracoli, come l'antro della Sibilla cumana. Il contesto dell'operaIl poema è stato composto in un periodo in cui a Roma stavano avvenendo grandi cambiamenti politici e sociali: la Repubblica era caduta, la guerra civile aveva squassato la società e l'inaspettato ritorno ad un periodo di pace e prosperità, dopo parecchi anni durante i quali aveva regnato il caos, stava considerevolmente mutando il modo di rapportarsi alle tradizionali categorie sociali e consuetudini culturali. Per reagire a questo fenomeno, l'imperatore Augusto stava tentando di riportare la società verso i valori morali tradizionali di Roma e si ritiene che la composizione dell'Eneide sia specchio di questo intento. Enea infatti è tratteggiato come un uomo devoto, leale verso la sua gente e attento alla crescita di essa, piuttosto che preoccupato dei propri interessi. Egli ha iniziato un percorso che porterà alla fondazione ed alla gloria di Roma. Con l'Eneide, inoltre, si tenta di legittimare l'autorità di Giulio Cesare e, per estensione, di suo figlio adottivo Augusto e dei discendenti, dato che discendevano dalla Gens Iulia, l'antica gens di Enea. Quando Enea compie il proprio viaggio nel mondo sotterraneo dei morti riceve una profezia riguardo alla futura grandezza dei suoi imperiali discendenti. Più in là avrà in dono da Vulcano un'armatura e delle armi, tra le quali uno scudo decorato con immagini dei personaggi che daranno lustro a Roma, primo fra tutti Augusto. Alcune anticipazioni si riscontrano poi in senso onomastico, soprattutto nei personaggi secondari: il miglior amico di Ascanio, Ati, è l'avo di Azia, madre di Ottaviano Augusto; dai quattro luogotenenti troiani di Enea che partecipano alla gara navale, Cloanto, Mnesteo, Gia e Sergesto, traggono la loro origine altrettante famiglie romane (i Cluenzi, i Memmi, la gens Gegania e i Sergi)[6]; in campo italico il principe sabino Clauso diventerà il progenitore della gens Claudia (destinata a fondersi con quella Iulia tramite il matrimonio che unirà Livia Drusilla ad Augusto), mentre non lasciano figli, ma sono destinati anch'essi a entrare in qualche modo nella storicità per il perpetuarsi della memoria dei loro nomi, Remo, Lamiro e Lamo, Serrano - i quattro giovani rutuli decapitati nel sonno da Niso - con Remo fratello di Romolo, la gens Lamia, il soprannome Serranus per un membro degli Attilii. In questo il poeta non fa distinzioni tra vincitori e sconfitti. Si può inoltre rivolgere l'attenzione al rapporto tra Troiani e Greci che si riscontra all'interno dell'Eneide. I Troiani secondo il poema furono gli antenati dei Romani, mentre gli eserciti greci, che avevano assediato e saccheggiato Troia, erano i loro nemici: tuttavia, all'epoca in cui l'Eneide è stata scritta, i Greci facevano parte dell'Impero romano e, pur essendo un popolo rispettato e considerato per la sua cultura e civiltà, erano di fatto un popolo sottomesso. Virgilio risolve questo problema sostenendo che i Greci avevano battuto i Troiani solo grazie al trucco del cavallo di legno, e non con una battaglia in campo aperto: in questo modo l'onore e la dignità dei Romani restavano salvi. Temi trattati nel poemaIl testo dell'Eneide è quasi interamente dedicato alla presentazione del concetto filosofico della contrapposizione. La più facile da riscontrare è quella tra Enea che, guidato da Giove, rappresenta la pietas intesa come devozione e capacità di ragionare con calma, e Didone e Turno che, guidati da Giunone, incarnano il furor, ovvero un modo di agire abbandonandosi alle emozioni senza ragionare. Altre contrapposizioni possono essere facilmente individuate: il Fato contro l'Azione, Roma contro Cartagine, il maschile contro il femminile, l'Enea simile ad Ulisse dei libri I-VI contro quello simile ad Achille dei libri VII-XII. La pietas era il valore più importante di ogni onesto cittadino romano e consisteva nel rispetto di vari obblighi morali: nella dimensione privata verso la famiglia e gli avi, nella dimensione pubblica verso gli dei e lo Stato. Virgilio insiste sulle forti relazioni presenti tra padri e figli: i legami tra Enea e Ascanio, Anchise ed Enea, Laocoonte e i due figlioletti, Evandro e Pallante, Mezenzio e Lauso, Dauco e i suoi figli gemelli, sono tutti in vario modo degni di essere attentamente valutati. Molta rilevanza nel poema ha anche il sentimento dell'amicizia al maschile tra commilitoni (Eurialo e Niso, Cidone e Clizio, Enea e Acate, Turno e Ramnete, Turno e Murrano); che talora può sconfinare nell'eros. Il poema riflette evidentemente gli intenti della riforma morale intrapresa da Augusto e quindi intende presentare una serie di edificanti esempi alla gioventù romana. Il principale insegnamento dell'Eneide è che, per mezzo della pietas, si deve accettare l'operato degli dei come parte del destino. Virgilio tratteggiando il personaggio di Enea allude chiaramente ad Augusto e suggerisce che gli dei realizzano i loro piani attraverso gli uomini: Enea doveva fondare Roma, Augusto deve guidarla, ed entrambi devono sottostare a quello che è il loro destino. È il Fato che affida ad Enea il compito di generare la stirpe romana. L'eroe virgiliano è consapevole, pensoso, non privo di dubbi e interiormente combattuto tra le scelte che le proprie responsabilità lo obbligano a compiere (salvare i compagni e dare loro una patria) e quelle che compirebbe seguendo i propri sentimenti. Si tratta di un eroe diverso da quello omerico, sicuro nel fare ciò che impone il senso del dovere. Di fondamentale importanza sono i versi del VI libro celebranti la missione di Roma (vv. 851-853): Tu regere imperio populos Romane memento / (hae tibi erunt artes) pacisque imponere morem, / parcere subiectis et debellare superbos ("Tu col tuo potere reggerai i popoli, Romano, ed imporrai equo costume di pace, queste saranno le tue arti, risparmiare i sottomessi e debellare i superbi"). Lo stileL'Eneide, come gli altri poemi epici classici, è scritta in esametri dattilici, il che significa che ogni verso ha sei piedi composti da dattili e spondei. La metrica del poema ricopre la stessa funzione delle rime usate dai poeti moderni: è un modo per rendere la composizione più gradevole all'ascolto. Virgilio fa inoltre ampio uso di figure retoriche come l'allitterazione, l'onomatopea, la sineddoche e l'assonanza. Il tempo nell'EneideDiversamente da quanto accade nell'Odissea di Omero, gli eventi narrati nell'Eneide non presentano una chiara scala temporale. Neppure l'età del figlio di Enea, Ascanio, si rivela utile per fornire qualche indizio in tal senso: nel settimo libro, ad esempio, egli ha un'età tale da permettergli di partecipare ad una battuta di caccia, mentre nel primo libro deve essere ancora molto piccolo tenendo conto che Cupido, avendone preso le fattezze, se ne sta tra le braccia di Didone a scagliare frecce nel suo cuore. Alcuni studiosi suggeriscono che questo uso "nebuloso" del tempo nell'Eneide sia una precisa scelta di Virgilio. Tradizioni filosoficheVirgilio per la stesura dell'Eneide si ispira alla teoria orfico-pitagorica, la quale affermava che l'anima è immortale. Questa si fonda a sua volta sulla dottrina della metempsicosi, che consiste nella trasmigrazione dell'anima dopo la morte in un altro corpo. La prova di questo può essere facilmente riscontrata nel sesto libro, durante la catabasi di Enea accompagnato dalla Sibilla Cumana, quando l'eroe troiano incontra suo padre Anchise che gli mostra quindi i grandi personaggi della futura storia di Roma. L'autore rifiuta quindi l'epicureismo, una filosofia elaborata da Epicuro che si basa sulla credenza che gli uomini siano formati da atomi, che con la morte si disgregano. StoriaLo stile poetico dell'Eneide è raffinato e complesso: la leggenda vuole che Virgilio ne scrivesse solo tre versi al giorno. L'opera è probabilmente incompleta, dato che si presenta come un lavoro non portato a termine: vi sono 58 versi scritti solo a metà, i cosiddetti 'tibicines' o puntelli, e, generalmente, si ritiene che la conclusione dell'opera sia troppo brusca per essere quella effettivamente prevista dall'autore. È abbastanza comune che il testo dei poemi epici si presenti incompleto o con alcune parti di discutibile attribuzione o chiaramente modificate a posteriori: l'Eneide, al contrario, grazie al fatto di essere stata concepita direttamente in forma scritta e non adattata da una precedente tradizione orale, è nel complesso giunta a noi molto più integra di quanto lo siano le opere classiche dello stesso genere. È comunque dubbio se Virgilio intendesse effettivamente completare questi versi, data sia l'evidente difficoltà che si riscontrerebbe nel tentare le modifiche, sia il fatto che spesso la brevità ne aumenta e favorisce l'effetto drammatico. Inoltre era in uso presso la poesia ellenistica limitarsi a dodici libri, invece dei ventiquattro di impostazione classica: si può dunque pensare che Virgilio abbia ripreso questa consuetudine in quanto i Romani non operavano una sostanziale scissione tra la cultura classica e quella ellenistica. Tuttavia la tradizione vuole che Virgilio, temendo di morire prima di aver terminato la stesura finale del poema, abbia affidato all'amico Vario Rufo il compito di bruciarla dopo la sua morte, motivando quest'ordine col suo stato d'incompletezza e asserendo che il passo del libro VIII sui rapporti matrimoniali di Venere e Vulcano non gli piaceva più. Presumibilmente aveva intenzione di modificare quella scena per adattarla meglio ai valori morali romani. L'amico però disobbedì al desiderio di Virgilio, e Ottaviano Augusto stesso ordinò che non fosse tenuto in considerazione: l'Eneide finì così per essere pubblicata dopo aver subito soltanto modifiche di modestissima entità. Lo scrittore tedesco Hermann Broch trattò tutto questo nel suo romanzo La morte di Virgilio. Nel XV secolo vi furono due tentativi di scrivere un'aggiunta all'Eneide. Il primo fu quello di Pier Candido Decembrio, ma non fu mai portato a termine. Il secondo, del poeta Maffeo Vegio, godette di un certo successo venendo spesso incluso nelle edizioni rinascimentali del poema col titolo di Supplementum. L'Eneide e la Divina CommediaL'Eneide è la fonte che ha maggiormente influito sulla composizione della Divina Commedia di Dante Alighieri. Il Sommo Poeta dichiara, fin dal primo canto dell'Inferno, il proprio debito letterario e stilistico verso Virgilio e la sua opera: «Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore, Nell'opera dantesca Virgilio è lo psicopompo del poeta fiorentino nel suo viaggio ultraterreno, per tutto l'Inferno e buona parte del Purgatorio: ciò non deve stupire dato che Dante conosceva approfonditamente l'intera Eneide: «…e così 'l canta Nel Limbo, Virgilio è accolto onorevolmente dalla scuola dei poeti (Omero, Ovidio, Lucano e Orazio): «"Onorate l'altissimo poeta; Nell'isola del Purgatorio, Dante e Virgilio incontrano l'anima del trovatore Sordello da Goito che, dopo aver riconosciuto Virgilio, si inchina, lo abbraccia, e lo riconosce come padre di quella lingua che, partendo dal latino avrebbe poi dato vita all'italiano: «"O gloria di Latin", disse, "per cui Salendo il Purgatorio, Dante e Virgilio incontrano l'anima di Publio Papinio Stazio, la cui Tebaide è anch'essa una fonte importante della Divina Commedia. Prima ancora di apprendere l'identità degli interlocutori, Stazio riconosce nell'opera di Virgilio un importante testo di riferimento: «Al mio ardor fuor seme le faville, Nella Divina Commedia, i riferimenti ai personaggi, ai luoghi, agli episodi dell'Eneide sono innumerevoli, tra cui: Enea, Turno, Eurialo e Niso, Camilla, Latino, Lavinia, Pentesilea, Caronte, Minosse, Elena, Didone, Sicheo, Cerbero, Flegias, le Arpie, il Minotauro, Pasifae, Teseo, le Gorgoni, Medusa e le Erinni, i Centauri (e.g. Chirone, Nesso), Caco, Ercole, Gerione, Manto, Tiresia, Calcante, Euripilo, Diomede, Ulisse, Penelope, Circe, i Giganti (e.g. Briareo, Tizio, Tifo), Sinone, Ecuba, Antenore, Rifeo; l'Acheronte, lo Stige, il Flegetonte, il Cocito, il Lete. L'episodio di Pier delle Vigne, trasformato in pruno, è in parte calcato su quello di Polidoro, figlio di Priamo ed Ecuba, fatto uccidere proditoriamente da Polimestore; l'umile giunco che cresce sulle rive del Purgatorio ricorda il ramo d'oro raccolto da Enea (entrambi, una volta strappati, ricrescono istantaneamente sempre uguali); come Enea a Troia cerca invano di abbracciare tre volte lo spirito della moglie Creusa, e nei Campi Elisi tre volte cerca invano di abbracciare il padre Anchise, e prima di lui Ulisse, discendendo nell'Erebo, tre volte aveva cercato invano di abbracciare la madre Anticlea, così Dante per tre volte cerca invano di abbracciare l'anima penitente di Casella[7]; e al pari di Palinuro, che aveva implorato la Sibilla affinché lo lasciasse passare sebbene insepolto (richiesta rimasta inesaudita), le anime purganti premono su Dante affinché questi riporti notizie di loro nel mondo e i vivi in stato di grazia preghino per loro agevolando in tal modo il loro passaggio verso il Paradiso. 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Note
Bibliografia(Per la bibliografia sull'autore si rimanda alla voce Publio Virgilio Marone) Opere di riferimento
Opere letterarie ispirate all'Eneide
Opere teatrali ispirate all'Eneide
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