Paradiso - Canto ventunesimoIl canto ventunesimo del Paradiso di Dante Alighieri si svolge nel cielo di Saturno, ove risiedono gli spiriti contemplativi; siamo nel pomeriggio del 14 aprile 1300, o secondo altri commentatori del 31 marzo 1300. Incipit«Canto XXI, nel quale si monta ne la stella di Saturno, che è il settimo pianeto; e qui comincia la settima parte, e come Pietro Dammiano solve alcune questioni.» Temi e contenutiIl cielo di Saturno e la scala d'oro - versi 1-42Terminato il discorso dell'aquila formata dalle spiriti dei giusti (iniziato nel canto ventesimo), Dante torna a volgere gli occhi verso Beatrice, la quale non può ora sorridere perché, come Dante saprà solo in seguito, nessuno riuscirebbe a sopportare la luce che emana dal suo sorriso, fattasi maggiore poiché i due sono arrivati al più alto cielo tra quelli dei pianeti: quello di Saturno, ossia il settimo cielo. Beatrice lo avverte di stare attento a ciò che sta per apparirgli. Il poeta vede apparire una scala dorata che si innalza oltre il limite a cui può giungere la sua vista. Gli spiriti contemplanti salgono e scendono sui gradini della scala, e alcune, salendo, scompaiono per la grande distanza. Dialogo con uno spirito contemplante - versi 43-72Una degli spiriti contemplanti si ferma davanti al Poeta, rivolgendogli la parola ed esortandolo a esprimere ciò che sta pensando. Mentre parla, lo spirito si fa più fulgido per la carità dimostrata. Beatrice concede a Dante di saziare la sua curiosità, perciò egli chiede umilmente di spiegargli due cose: il motivo per il quale quello spirito si sia allontanato dalle altre per avvicinarsi a lui e come mai in questo cielo non si oda alcun canto. Lo spirito risponde prima alla seconda domanda. Gli spiriti di Saturno tacciono per lo stesso motivo per cui Beatrice non ha sorriso, ovvero perché la vista e l'udito di Dante non riuscirebbero, in quanto mortali, a sopportare il canto dei beati. Quanto alla prima domanda, spiega che non si è fermato perché più premuroso degli altri spiriti, in quanto tutti gli spiriti hanno pari o maggiore amore di lui (lo si capisce da quanto sia abbagliante la loro luce). La profonda carità al servizio della Provvidenza impone agli spiriti di adempiere i propri doveri. Dubbio di Dante e risposta dello spirito sulla predestinazione - versi 73-102Per quanto riguarda la prima domanda di Dante, lo spirito risponde che nessuno, nemmeno Maria e nemmeno il più sublime degli angeli serafini può rispondere a questa domanda. Invita dunque Dante a riferire, una volta tornato nel mondo terreno, il messaggio di umiltà rispetto a conoscenze che trascendono ogni mente creata. Lo spirito rivela di essere Pier Damiani - versi 103-126Alla domanda di Dante sull'identità di chi gli sta parlando, lo spirito risponde che visse a lungo da monaco contemplativo, in modo semplice e modesto, col nome di Pier Damiani nel monastero camaldolese di Fonte Avellana, e che si diede a vita di penitenza col nome di Pietro Peccatore in una "casa di Nostra Donna" (vv. 122-123) situata sul litorale adriatico, da alcuni identificata con la chiesa di Chiesa di Santa Maria in Porto Fuori[1], da altri con quella di Santa Maria di Portonovo[2], nei dintorni di Ancona. Poco tempo prima della morte ricevette la nomina a cardinale, simboleggiata dal cappello cardinalizio che ora passa "di male in peggio" (v. 126). Invettiva contro i prelati corrotti - versi 127-142Lo spirito lancia infine una vibrante invettiva contro la corruzione della Chiesa e la vita opulenta e molle dei moderni pastori, contrapponendola a quella santa e povera di Pietro e Paolo. Alle sue parole tutti i beati del settimo cielo rispondono manifestando il loro plauso con un altissimo grido. AnalisiIl cielo di Saturno e la scala d'oroL'ingresso di Dante e Beatrice nel cielo di Saturno è segnato da un mutamento nelle sensazioni che il pellegrino riceve: non vede più lo sfolgorante riso di Beatrice, né ode inni cantati dalle anime. In questo modo si sottolinea la limitatezza della mente di Dante e di tutti gli uomini, che trova più avanti, nei vv.83-102, una solenne dichiarazione nelle parole di Pietro Damiano. Il legame tra il mondo terreno, limitato e imperfetto, e il mondo celeste, cui le anime si possono innalzare tramite l'ascesi e la contemplazione, è simboleggiato dalla luminosissima scala (come d'oro su cui batte il sole) lungo la quale si muovono costantemente le anime. L'immagine della scala era frequentemente usata con tale valore simbolico nella tradizione mistica, in particolare nella regola benedettina; anche Pier Damiani la usa in un suo scritto[3]. Essa rimanda a quella sognata da Giacobbe, come Dante stesso ricorda (con le parole di San Benedetto) nel canto successivo ai vv.70-72. Dialogo con Pier DamianiLa vita di Pier Damiani è caratterizzata dai valori dell'umiltà, dell'ascesi (accennata dal nutrirsi di cibi conditi col solo olio, v.115, e dal sopportare senza lagnarsi le asperità del clima) e della contemplazione. Questo fa di lui un testimone severo della corruzione degli ordini monastici e più in generale del clero, tema, come è noto, ricorrente nel Paradiso. Poca vita mortal m'era rimasaNella rievocazione dei passaggi essenziali della vita del santo, Dante fa un'affermazione che ad alcuni è sembrata un'imprecisione: la nomina a cardinale non avvenne poco prima della morte (poca vita mortal m'era rimasa, v.124), ma quindici anni prima[4]; dopo nove anni Pier Damiani ottenne però di tornare al monastero. Pietro peccatorLa terzina in cui Pier Damiani rivela il suo nome (In quel loco fu' io Pier Damiano / e Pietro peccator fu' nella casa) è oggetto di tre ipotesi interpretative. Secondo alcuni commentatori[4], Dante avrebbe confuso Pier Damiani, che dimorò a Fonte Avellana (in quel loco fu' io Pier Damiano), con Pietro degli Onesti (Pietro peccator) (v.122), quasi contemporaneo del primo e che dimorò nel monastero di Santa Maria in Porto Fuori, presso Ravenna, a cui Dante alluderebbe con l'espressione casa di Nostra Donna in sul lito adriano. Altri pensano, all'opposto, che Dante abbia voluto distinguere tra i due religiosi di nome Pietro/Piero. Volendo seguire questa ipotesi è necessario scrivere nel seguente modo la terzina dantesca: nel primo verso la parola "fu" dovrebbe essere scritta con l'apostrofo (a significare "fui", prima persona singolare, con soggetto Pier Damiani) e, nel secondo verso, senza apostrofo ("fu", terza persona singolare, con soggetto Pietro degli Onesti). La terzina sarebbe quindi da scrivere così: "In quel loco fu' io Pier Damiano / e Pietro peccator fu nella casa...", cioè: "Io, Pier Damiano, dimorai nel monastero di Fonte Avellana, mentre Pietro degli Onesti dimorò in quello di Santa Maria sul lido adriatico"[5]. Secondo altri commentatori[4][2], infine, Dante non fa alcun riferimento a Pietro degli Onesti e il "fu'" può essere lasciato invariato; il significato della terzina sarebbe: "a Fonte Avellana dimorai io, Pier Damiano, e, con il nome di Pietro peccatore, dimorai nella casa di Nostra Donna in sul lito adriano". Secondo questi commentatori, quindi, il "Pietro peccator" è proprio Pier Damiani, e non Pietro degli Onesti, e questo per tre motivi: anzitutto perché la citazione del secondo monaco non è attinente al discorso che Pier Damiani sta facendo a Dante, in secondo luogo perché Pier Damiani usava firmarsi come "Petrus peccator", secondo la consuetudine diffusa nell'ambiente monastico di aggiungere al proprio nome, in segno di umiltà, l'aggettivo "peccatore", specialmente durante i periodi di penitenza. Questa è l'interpretazione più piana, per tre motivi: non rende necessario ipotizzare due modi diversi di scrivere "fu", non costringe a pensare che Dante abbia voluto inserire una distinzione del tutto fuori contesto, né ritenere che il Poeta abbia fatto confusione tra due personaggi diversi. Casa di Nostra Donna in sul lito adrianoDue diverse ipotesi interpretative esistono a proposito dell'identificazione della casa di Nostra Donna in sul lito adriano, ossia ad una chiesa monastica (casa) dedicata a Maria (Nostra Donna) posta sul litorale (lito) adriatico (adriano); secondo alcuni con questa espressione Dante allude a Santa Maria di Portonovo, presso Ancona, secondo altri (e tra questi i primi commentatori dell'opera dantesca) a Santa Maria in Porto Fuori, presso Ravenna. Gli argomenti a sostegno della prima ipotesi sono i seguenti[2].
Gli argomenti a sostegno della seconda ipotesi sono invece i seguenti[4].
Come già detto nella sezione precedente, per confermare l'identificazione con la chiesa ravennate e per non ammettere un'ignoranza cronologica da parte di Dante ed un suo abbaglio nell'interpretare l'epigrafe di cui sopra, altri commentatori ipotizzano che il Poeta, al verso 122, abbia voluto distinguere tra due diversi monaci, entrambi di nome Pietro: Pier Damiani (che dimorò in quel loco cioè a Fonte Avellana) e Pietro degli Onesti (che dimorò realmente nella chiesa ravennate). Questa ipotesi comporta però una distinzione del tutto fuori contesto e una diversa scrittura del verso 122: uno dei due fu dovrebbe essere scritto senza apostrofo. Invettiva contro i prelatiNell'ultimo verso del canto, "né io lo 'ntesi, sì mi vinse il tuono", Dante ci dice che, a causa della potenza del grido, non fu in grado di comprendere le parole pronunciate dalle anime, di cui sentì solo il fragoroso rimbombo. Questo grido incomprensibile, la mancanza del sorriso di Beatrice e l'assenza della musica conferiscono al cielo di Saturno un tono particolare, particolarmente misterioso, rispetto a quello degli altri cieli del Paradiso[4]. Note
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